Regia: Yorgos Lanthimos
Sceneggiatura: Yorgos Lanthimos, Efthymis Filippou
Cast: Colin Farrell, Rachel Weisz, Léa Seydoux, Olivia Colman, Jessica Barden, John C. Reilly, Ben Whishaw, Angeliki Papoulia, Ariane Labed
Durata: 118 min.
-“Dovrà trovare una persona uguale a lei. Se non ci riuscirà, retrocederà al regno animale. Per sempre. Che cosa desidera diventare, eventualmente…”
-“Un’aragosta”.
Ricchissimo di spunti interessanti e premiato con premio della Giuria all’ultimo festival di Cannes, The Lobster è il quarto film di Yorgos Lanthimos, regista greco pressoché sconosciuto in Italia, la cui spietatezza, si dice in giro, è paragonabile a quella di Lars von Trier.
Si tratta infatti del suo primo lavoro girato in lingua inglese, con un cast internazionale che, oltre a un Colin Farrell pressoché irriconoscibile, annovera anche Rachel Weisz, Léa Seydoux, Olivia Colman e Angeliki Papoulia.
David (interpretato da un ottimo Colin “panzetta” Farrell perfetto per quel ruolo) ha quarantacinque giorni di tempo da trascorrere in un albergo creato appositamente per single come lui in un mondo in cui, a nessuno, uomo o donna, è permesso di vivere da solo.
Se alla fine del soggiorno, non avrà trovato la propria anima gemella lo scotto da pagare sarà la trasformazione in The Lobster, ovvero l’aragosta, l’animale che David ha dichiarato di voler diventare prima di essere accolto nella struttura: l'aragosta è pur sempre un animale longevo, fertile per tutta la durata della vita e che vive in mare, ambiente che a David piace moltissimo e questo a lui sembra bastare. Insomma, un po' come se l’alternativa al trovare un’anima gemella fosse diventare animali e, non a caso, ad accompagnare David in questo percorso c'è il suo bel cane, che in realtà si scopre essere stato in origine il fratello, poi trasformato perché non in grado di trovare la partner giusta per lui.
Siamo in un futuro prossimo non meglio specificato, in un luogo fisico non meglio identificato. Siamo in una realtà sociale distopica in cui, la società non permette agli esseri umani di restare single per cui vedovi/e e amanti abbandonati vengono immediatamente catturati e ricoverati in un hotel. Non solo si deve stare in coppia ma è necessario che la coppia sia sintonica e vada piacevolmente d’accordo. Poche e semplici norme sono state create per favorire il controllo dei comportamenti, che è più difficile se le persone vivono da sole. Un mondo senza più amore e affetto che ha però bisogno di dimostrare il contrario, in cui le unioni sono basate su falsità mascherate da intese perfette. Un mondo in cui in caso di crisi, alla coppia viene fornito un bambino e comunque i figli vengono “annessi” alle coppie già grandicelli e hanno il compito a priori di tenerli uniti. Un mondo in cui si va anche a caccia: si spara ai single integralisti e come premio si guadagnano giorni di permanenza in più e quindi maggiore opportunità di trovare il partner adatto.
Dopo un tentativo mal riuscito di formare una coppia con una donna senza cuore, David scappa dall’hotel e trova rifugio nella foresta, dove viene accolto da un gruppo di ribelli, una comunità di single irriducibili scampati alla metamorfosi animalesca, nascosta in mezzo a un bosco.
Qui, tra cammelli e pavoni che un giorno furono uomini, balli grotteschi e immagini accuratamente selezionate del paesaggio irlandese del Kerry, la situazione di David non migliora però di molto: il gruppo è guidato da una fanatica e spietata tiranna (la bravissima Léa Seydoux), ben decisa a far rispettare a qualsiasi costo le regole e le strategie che i single si impongono per evitare di inciampare in quelle debolezze tipicamente umane, giungendo a odiare qualunque manifestazione di affetto e di condivisione.
Essendosi innamorato di una donna che a sua volta lo ama, a David non resta che fuggire alla ricerca di una libertà assoluta, cioè sciolta da vincoli e controlli sociali. Ma siamo sicuri che questo genere di libertà esista davvero?
Ed è così che con spirito dissacrante e anticonvenzionale Lanthimos ci da una rappresentazione assai spiazzante e crudelmente umoristica di un’umanità costretta a vivere senza libertà, in cui l’intera situazione richiama un po' le situazioni assurde, a metà tra il grottesco e l'inverosimile dei libri di Saramago, in cui lo spettatore/lettore viene catapultato e costretto ad accertarne l'inverosimiglianza.
Anche lo stampo teatrale dei dialoghi e un linguaggio nuovo, razionalistico e nero fino alla perfidia e davvero poco sentimentale ne sottolineano la folle e perversa visione.
Girato in Irlanda con luci quasi interamente naturali, il film presenta un grande schematismo che, in senso spaziale viene rappresentato dai tre luoghi in cui si svolge l'intera vicenda: l'albergo, il bosco e la città.
L'albergo è un luogo pieno di regole che funge un po' da spartiacque e da chiave di accesso agli altri due mondi: o accetti di formare una coppia o decidi di restare un solitario e di andare nel bosco. Oppure muori o diventi bestia. Nient'altro è permesso.
Il bosco rappresenta così quasi un virus, un elemento destabilizzante che diventa il simbolo della ribellione ad una condizione imposta e che, paradossalmente, si trasforma però in un'altra costruzione sociale e in cui l'uomo rimane intrappolato, ritrovandosi ad essere ancora, in ultima istanza, di fatto individualista e incapace di provare emozioni.
La città sembra invece quasi un social network, un posto dove mostrarsi sempre felici e, soprattutto, felici in coppia, e comunque, altro da se. Un mondo nel quale però anche i ribelli del bosco ogni tanto devono andare per fingersi altro da sé.
Tre piccole enclavi quindi dove la libertà alla fine non esiste.
Un film divertente, in quanto irriverentemente ironico, ma anche molto irritante perché lascia insoddisfatta la ricerca di senso logico di chi si aspetta di trovare un nesso filosofico o una specie di teorema.
Vogliamo leggerci una critica precisa alla società moderna che ci circonda, in cui tutto è fatto per due o, meglio ancora, per una famiglia? Leggiamocela.
Vogliamo leggerci una rappresentazione della precarietà dell’equilibrio di coppia, ma anche della fragilità del nostro equilibrio individuale? Leggiamocela.
In ogni caso The Lobster è un film crudo e crudele, una sorta di ordine e semplificazione sociale, in cui anche l’unica scena di seduzione risulta fredda e controllata, in cui l'uomo non ha più niente di autentico e vitale e in cui anche il sesso e la violenza appaiono freddi, meccanici e incapaci di stupire.
Il grottesco, il ridicolo, il delirante, qui si mischiano e si intrecciano con la realtà facendo oscillare in continuazione la pellicola tra l’assurdità e la verosimiglianza: Lanthimos stravolge l’abituale susseguirsi degli eventi, costringendo i protagonisti a scelte inusuali, inaspettate e perlopiù drammatiche, sfociando così in un cinema dell’assurdo. Un’insensatezza a cui, durante il film, non ci si fa neppure caso, tanto sono numerose e forti le stranezze.
Ma The Lobster è anche un film giocato sul non detto, sul non sentito (la scena in cui viene suonata pianissimo Where the Wild Roses Grow di Nick Cave e Kylie Minogue) e sul non visto (il finale). Un finale che ognuno può leggere nella maniera che preferisce.
La mancanza più grande?
Devo dirlo, Lanthimos non riesce a raggiungere quel livello di poesia che trasformerebbe il film in un capolavoro. Ma forse non vuole neanche farlo e la sua intenzione è proprio metterci davanti a un'opera quasi monumentale ma incapace di provocarti la minima emozione se non quel grandissimo stupore che assale ogni uomo che viene messo con violenza assoluta di fronte all'assurdità.