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lunedì 1 novembre 2021

FREAKS OUT E GLI SCAPPATI DI CASA COME NOI

Regia: Gabriele Mainetti
Genere: commedia, fantasy 
Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Gabriele Mainetti 
Attori: Claudio Santamaria, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, Giancarlo Martini, Giorgio Tirabassi, Max Mazzotta, Franz Rogowski 
Musiche: Michele Braga, Gabriele Mainetti 
Produzione: Lucky Red, Goon Films, Rai Cinema 
Durata: 141’


 “Povertà, sfruttamento e abbandono sono le ferite di un Paese orfano di certezze. Il paesaggio desertico diventa metafora della vita di tutti i ragazzi privati di una famiglia e dei loro diritti. Attraverso gli occhi di un bambino, il film ci proietta nel profondo di una tragica realtà nella quale il protagonista ci mostra che affermare la propria identità è sempre possibile… Un’imprevedibile atmosfera conquista lo spettatore proiettandolo in un mondo tanto spettacolare quanto catastrofico. Tra tendoni da circo e campi da guerra quattro protagonisti, nella loro diversità, esprimono la necessità di essere umani. Un’opera innovativa e coraggiosa, che racchiude in una grande avventura fra sogno e realtà, tutto l’amore per il cinema”.
Motivazione al conferimento del Leoncino d’oro (Mostra del Cinema di Venezia)  

 

Una serata al cinema inaspettata, organizzata in quattro e quattr’otto, per un film ancora più inaspettato, Freak out di Gabriele Mainetti. Sì, perché dopo Jeeg Robot, da questo vendicatore del cinema italiano mi aspettavo tanto e ho ricevuto ancora di più.


Una sceneggiatura pazzesca, scritta da Mainetti a quattro mani con Nicola Guaglianone, che ha messo in moto in una Roma del ’43 dei personaggi straordinari oltre che pop: Matilde (Aurora Giovinazzo), la protagonista principale, una ragazza elettrica che non sa controllare i poteri che vede scatenarsi in lei appena prova sentimenti come ira, paura e amore; Cencio che sa manipolare gli insetti a proprio piacimento, interpretato da Pietro Castellitto, che recentemente ho apprezzato anche in La profezia dell'armadillo di Emanuele Scaringi, e che qui ritroviamo in versione albino; Fulvio, l’uomo scimmia forzutissimo ma anche gentile e intellettuale (Claudio Santamaria); e Mario, un nano che attira gli oggetti di metallo come una calamita (Giancarlo Martini). 
A capitanare questo gruppo di scappati di casa c’è Israel (Giorgio Tirabassi), mago e impresario ebreo del Circo Mezza Piotta, un circo magico senza animali che gira nella campagna romana.


La figura del nemico è invece impersonata da Franz (Franz Rogowski), un nazista tedesco con sei dita per mano capace di “vedere” il futuro, dote che lo ha reso celebre come pianista, permettendogli di rubare le canzoni dal futuro (Creep dei Radiohead e di Sweet Child o mine dei Guns N’ Roses), ma che lo ha anche reso consapevole del ruolo che poteva avere nello scongiurare l’imminente caduta del Reich: usa il circo che possiede par andare in cerca di mutanti dai superpoteri e poter così diventare un generale, come ha sempre sognato. 

Siamo nel pieno del conflitto mondiale e i quattro freaks con poteri misteriosi sono allo sbando dopo che Israel è scomparso mentre trovava il modo di portare il gruppo in America. 
Matilde decide di andarlo a cercare, mettendo in moto un vero e proprio viaggio dell’eroe, dove, insieme ai suoi amici, incapperà in mille avventure, per crescere e maturare, arrivando ad accettare e comprendere a pieno i suoi superpoteri. 
A questi “fenomeni da baraccone” si aggiungerà poi una banda di partigiani particolari capitanata da Max Mazzotta


Mi piace questo Gabriele Mainetti che con una gagliarda fiaba romanesca omaggia il neorealismo italiano (contaminandolo con il fantasy) e il grande cinema, tanto che dentro sembra di vederci almeno 50 film: c’è chi ci ha visto Il Mago di Oz (Matilde sarebbe Dorothy, con tanto di treccine e grembiule, Fulvio il leone, Mario l’omino di latta e Cencio lo spaventapasseri; chi ci ha trovato il Tarantino di Bastardi senza gloria, ma anche Fellini e Monicelli. 

Un Mainetti tutto fare: sua la sceneggiatura del film, scritta in collaborazione con Nicola Guaglianone da un soggetto originale di quest’ultimo, curatore delle musiche insieme al compositore Michele Braga. Una colonna sonora orchestrata da Emanuele Bossi, premiata con il Soundtrack Stars Award 2021 per la migliore colonna sonora tra i film in concorso alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia in quanto “elemento protagonista e di assoluto rilievo all’interno del film, unendo elementi della nostra tradizione musicale a un sound più contemporaneo e passando anche attraverso le riletture di classici come Creep dei Radiohead, trasformata al pianoforte in stile Rachmaninov dal nazista esaltato Franz, o Bella Ciao, riletta in chiave avanguardista”


Unica pecca? L’eccessiva lunghezza, che comunque non ho sentito tanto perché coinvolta in quello che stava succedendo. Insomma, un grande tributo alla cultura pop in grado di dimostrare che il cinema italiano può essere anche altro. 

mercoledì 18 marzo 2020

The Door in the Floor. E se fosse una recensione?


"Io ti ho assunto Eddie perché rassomigli a Thomas. Le ho regalato te".



Se fosse un dipinto?
Sarebbe Gli amanti di René Magritte

Se fosse un romanzo?
Sarebbe quello da cui è tratto: Vedova per un anno di John Irving.
Qui la citazione iniziale:
«...come a questa piccola signora,
la miglior cosa che possa augurarle
è una piccola disgrazia. »

Se fosse un vino?
Sarebbe un Cabernet Sauvignon: un vino complesso, molto aromatico, robusto e resistente a differenti condizioni climatiche ed emotive.

Se fosse un orario?
Sarebbe le 11:11 (am), perché dove c’è la luce c’è anche l’ombra...

Se fosse una serie di Netflix?
Oscillerebbe tra The Gift e Segreti nel tempo

Se fosse un disco?
Sarebbe Loveless dei My Bloody Valentine

Se fosse una frase dello script?
Sarebbe: “Lo spazzaneve tagliò la macchina quasi esattamente a metà”.

Se fosse un emozione?
Sarebbe curiosità, stupore, melanconia, sarebbe un wow, un ah, uno sticazzi, uno yeah e infine un ebeh.

Ho reso l’idea?

E.

martedì 1 maggio 2018

6 palloncini + una lunga notte, un fratello e una sorella



Titolo originale: 6 Balloons.
Genere: Drammatico
Regia: Marja-Lewis Ryan
Attori principali: Dave Franco, Tim Matheson, Abbi Jacobson, Jane Kaczmarek, Maya Erskine, Jen Tullock
Anno e paese di uscita: USA,2018
Durata: 74 minuti
Colonna sonora: Heather McIntosh
Fotografia: Polly Morgan
Distribuzione: Netflix






Los Angeles. Una lunga notte, un fratello e una sorella.



I loro genitori ormai non sentono neanche più le richieste di aiuto di lui, tossicodipendente, non gli credono più.
Rimane solo lei ad aiutarlo, ma alla fine anche questa forma d'aiuto è una dipendenza, che la porta a occuparsi di lui anziché di se stessa, lottando per salvarsi dai demoni  senza farsi trascinare nell’abisso.

La condivisione del dolore, la distruzione e l' autodistruzione, ma anche l'affinità e la complicità tra fratello e sorella. E soprattutto l'impotenza.

Delicato, in un certo qual modo poetico, con la metafora della barca in mare che sta lentamente affondando che accompagna tutto il film, oltre all'uso di sovrimpressioni e di  inserti extra-narrativi.
Anche la fotografia di Polly Morgan richiama i colori lividi della notte e del corpo di Seth, il fratello.

E le due ciliegine sulla torta, una Abbi Jacobson al fianco di Dave Franco, che, tra l'altro, ha recentemente recitato insieme al fratello in The Disaster Artist e che questa volta per il ruolo di Seth ha deciso di tenere un profilo basso e ha perso 11 kg.

Distribuito in tutto il mondo da Netflix a partire dal 6 aprile 2018.

lunedì 25 gennaio 2016

The Lobster e il cinema dell'assurdo di Lanthimos


Regia: Yorgos Lanthimos
Sceneggiatura: Yorgos Lanthimos, Efthymis Filippou
Cast: Colin Farrell, Rachel Weisz, Léa Seydoux, Olivia Colman, Jessica Barden, John C. Reilly, Ben Whishaw, Angeliki Papoulia, Ariane Labed
Durata: 118 min.




-“Dovrà trovare una persona uguale a lei. Se non ci riuscirà, retrocederà al regno animale. Per sempre. Che cosa desidera diventare, eventualmente…”

-“Un’aragosta”.

Ricchissimo di spunti interessanti e premiato con premio della Giuria all’ultimo festival di Cannes, The Lobster è il quarto film di Yorgos Lanthimos, regista greco pressoché sconosciuto in Italia, la cui spietatezza, si dice in giro, è paragonabile a quella di Lars von Trier.
Si tratta infatti del suo primo lavoro girato in lingua inglese, con un cast internazionale che, oltre a un Colin Farrell pressoché irriconoscibile, annovera anche Rachel Weisz, Léa Seydoux, Olivia Colman e Angeliki Papoulia.

David (interpretato da un ottimo Colin “panzetta” Farrell perfetto per quel ruolo) ha quarantacinque giorni di tempo da trascorrere in un albergo creato appositamente per single come lui in un mondo in cui, a nessuno, uomo o donna, è permesso di vivere da solo.
Se alla fine del soggiorno, non avrà trovato la propria anima gemella lo scotto da pagare sarà la trasformazione in The Lobster, ovvero l’aragosta, l’animale che David ha dichiarato di voler diventare prima di essere accolto nella struttura: l'aragosta è pur sempre un animale longevo, fertile per tutta la durata della vita e che vive in mare, ambiente che a David piace moltissimo e questo a lui sembra bastare. Insomma, un po' come se l’alternativa al trovare un’anima gemella fosse diventare animali e, non a caso, ad accompagnare David in questo percorso c'è il suo bel cane, che in realtà si scopre essere stato in origine il fratello, poi trasformato perché non in grado di trovare la partner giusta per lui.

Siamo in un futuro prossimo non meglio specificato, in un luogo fisico non meglio identificato. Siamo in una realtà sociale distopica in cui, la società non permette agli esseri umani di restare single per cui vedovi/e e amanti abbandonati vengono immediatamente catturati e ricoverati in un hotel. Non solo si deve stare in coppia ma è necessario che la coppia sia sintonica e vada piacevolmente d’accordo. Poche e semplici norme sono state create per favorire il controllo dei comportamenti, che è più difficile se le persone vivono da sole. Un mondo senza più amore e affetto che ha però bisogno di dimostrare il contrario, in cui le unioni sono basate su falsità mascherate da intese perfette. Un mondo in cui in caso di crisi, alla coppia viene fornito un bambino e comunque i figli vengono “annessi” alle coppie già grandicelli e hanno il compito a priori di tenerli uniti. Un mondo in cui si va anche a caccia: si spara ai single integralisti e come premio si guadagnano giorni di permanenza in più e quindi maggiore opportunità di trovare il partner adatto.

Dopo un tentativo mal riuscito di formare una coppia con una donna senza cuore, David scappa dall’hotel e trova rifugio nella foresta, dove viene accolto da un gruppo di ribelli, una comunità di single irriducibili scampati alla metamorfosi animalesca, nascosta in mezzo a un bosco.
Qui, tra cammelli e pavoni che un giorno furono uomini, balli grotteschi e immagini accuratamente selezionate del paesaggio irlandese del Kerry, la situazione di David non migliora però di molto: il gruppo è guidato da una fanatica e spietata tiranna (la bravissima Léa Seydoux), ben decisa a far rispettare a qualsiasi costo le regole e le strategie che i single si impongono per evitare di inciampare in quelle debolezze tipicamente umane, giungendo a odiare qualunque manifestazione di affetto e di condivisione.

Essendosi innamorato di una donna che a sua volta lo ama, a David non resta che fuggire alla ricerca di una libertà assoluta, cioè sciolta da vincoli e controlli sociali. Ma siamo sicuri che questo genere di libertà esista davvero?

Ed è così che con spirito dissacrante e anticonvenzionale Lanthimos ci da una rappresentazione assai spiazzante e crudelmente umoristica di un’umanità costretta a vivere senza libertà, in cui l’intera situazione richiama un po' le situazioni assurde, a metà tra il grottesco e l'inverosimile dei libri di Saramago, in cui lo spettatore/lettore viene catapultato e costretto ad accertarne l'inverosimiglianza.

Anche lo stampo teatrale dei dialoghi e un linguaggio nuovo, razionalistico e nero fino alla perfidia e davvero poco sentimentale ne sottolineano la folle e perversa visione.
Girato in Irlanda con luci quasi interamente naturali, il film presenta un grande schematismo che, in senso spaziale viene rappresentato dai tre luoghi in cui si svolge l'intera vicenda: l'albergo, il bosco e la città.
L'albergo è un luogo pieno di regole che funge un po' da spartiacque e da chiave di accesso agli altri due mondi: o accetti di formare una coppia o decidi di restare un solitario e di andare nel bosco. Oppure muori o diventi bestia. Nient'altro è permesso.
Il bosco rappresenta così quasi un virus, un elemento destabilizzante che diventa il simbolo della ribellione ad una condizione imposta e che, paradossalmente, si trasforma però in un'altra costruzione sociale e in cui l'uomo rimane intrappolato, ritrovandosi ad essere ancora, in ultima istanza, di fatto individualista e incapace di provare emozioni.
La città sembra invece quasi un social network, un posto dove mostrarsi sempre felici e, soprattutto, felici in coppia, e comunque, altro da se. Un mondo nel quale però anche i ribelli del bosco ogni tanto devono andare per fingersi altro da sé.
Tre piccole enclavi quindi dove la libertà alla fine non esiste.
Un film divertente, in quanto irriverentemente ironico, ma anche molto irritante perché lascia insoddisfatta la ricerca di senso logico di chi si aspetta di trovare un nesso filosofico o una specie di teorema.

Vogliamo leggerci una critica precisa alla società moderna che ci circonda, in cui tutto è fatto per due o, meglio ancora, per una famiglia? Leggiamocela.
Vogliamo leggerci una rappresentazione della precarietà dell’equilibrio di coppia, ma anche della fragilità del nostro equilibrio individuale? Leggiamocela.

In ogni caso The Lobster è un film crudo e crudele, una sorta di ordine e semplificazione sociale, in cui anche l’unica scena di seduzione risulta fredda e controllata, in cui l'uomo non ha più niente di autentico e vitale e in cui anche il sesso e la violenza appaiono freddi, meccanici e incapaci di stupire.

Il grottesco, il ridicolo, il delirante, qui si mischiano e si intrecciano con la realtà facendo oscillare in continuazione la pellicola tra l’assurdità e la verosimiglianza: Lanthimos stravolge l’abituale susseguirsi degli eventi, costringendo i protagonisti a scelte inusuali, inaspettate e perlopiù drammatiche, sfociando così in un cinema dell’assurdo. Un’insensatezza a cui, durante il film, non ci si fa neppure caso, tanto sono numerose e forti le stranezze.
Ma The Lobster è anche un film giocato sul non detto, sul non sentito (la scena in cui viene suonata pianissimo Where the Wild Roses Grow di Nick Cave e Kylie Minogue) e sul non visto (il finale). Un finale che ognuno può leggere nella maniera che preferisce.

La mancanza più grande?
Devo dirlo, Lanthimos non riesce a raggiungere quel livello di poesia che trasformerebbe il film in un capolavoro. Ma forse non vuole neanche farlo e la sua intenzione è proprio metterci davanti a un'opera quasi monumentale ma incapace di provocarti la minima emozione se non quel grandissimo stupore che assale ogni uomo che viene messo con violenza assoluta di fronte all'assurdità.

giovedì 21 novembre 2013

"La promessa": ovvero quando Sean Penn è tornato a sorprendermi




"Ho fatto una promessa Eric; tu hai l'età per ricordarti di quando questo contava"
Detective Jerry Black (Jack Nicholson)


Titolo originale: The Pledge
Anno: 2001
Genere: drammatico
Regia: Sean Penn
Soggetto: Friedrich Dürrenmatt
Sceneggiatura: Jerzy Kromolowsky, Mary Olson-Kromolovski
Fotografia: Chris Menges


Produttore: Michael Fitzgerald, Sean Penn, Elie Samaha
Musiche: Klaus Badelt, Hans Zimmer
Interpreti e personaggi:
Jack Nicholson: Jerry Black
Robin Wright Penn: Lori
Patricia Clarkson: Margaret Larsen
Benicio del Toro: Toby Jay Wadenah

Ogni tanto non riuscire a dormire porta a grandi risultati. Questa notte sono incappata per caso in un vecchio film diretto da Sean Penn e, memore di Into the wild (altro film in cui si è cimentato nei panni di regista), ho optato per l'abbandono definitivo del mio stato di fastidioso dormiveglia per concentrarmi interamente su questo gioiellino.

Ispirato all'omonimo romanzo poliziesco di Friedrich Dürrenmatt, La promessa (The Pledge) è un film che, al contrario del libro, è ambientato nella provincia americana dei nostri giorni, fra le montagne del Nevada.

Qui, Jerry Black (Jack Nicholson), un poliziotto ossessionato dal brutale omicidio di una bambina, non è soddisfatto di come si è conclusa l'indagine, ovvero con il semplice arresto di un balordo (che in realtá non centrava niente e che si uccide nel commissariato).
Per questa frustrazione che non gli fa trovare pace, Black inizia una silenziosa caccia all'uomo: si ritira nella zona, compra un distributore di benzina in cui lavora in solitudine, conosce la barista del posto, con cui va a vivere e aspetta che il folle si faccia di nuovo vivo pensando ogni momento a lui.

Insieme alla donna, nella vita dell'ex poliziotto entra anche la figlia di lei (dell'età delle bimbe uccise) , di cui Black, ossessionato dall'uomo, non esita a servirsi come esca per poi mandare definitivamente la sua vita a rotoli e precipitare nella follia.

Trama a parte, il film, presentato in concorso al 54º Festival di Cannes, non può essere definito un tipico giallo: il lirismo dell’atmosfera, la direzione di Sean Penn e la magistrale presenza dell'istrionico Jack Nicholson rendono La promessa (The Pledge) un film da non perdere dove nulla viene lasciato al caso ed ogni cosa è intrisa di denso significato.

A partire dalle immagini-cartolina distribuite nella pellicola, compresa l'immagine del finale con cui inizia il film, in cui corvi (simbolo funereo) che volano in un paesaggio soleggiato ripreso in dissolvenza, ti fanno immergere prepotentemente nell'atmosfera che Sean Penn vuole ricreare.

"PELLE" di Erica Zanin

"PELLE" di Erica Zanin
Un romanzo in vendita su www.ilmiolibro.it

"PELLE", il mio primo romanzo che consiglio a tutti!

Siamo nella Milano dei giorni nostri, in quella zona periferica che da Greco conduce a Sesto San Giovanni. In un autobus dell'ATM, un autista, ormai stanco del suo lavoro, deve affrontare una baby gang che spaventa i suoi passeggeri. Si chiama Bruno ed è uno dei tanti laureati insoddisfatti costretti a fare un lavoro diverso da quello da cui ambivano: voleva fare il giornalista e invece guida l'autobus nella periferia di Milano. Ma non gli dispiace e non si lamenta. E' contento lo stesso: è il re del suo autobus e i suoi passeggeri sono solo spunti interessanti per i racconti che scrive. Li osserva dallo specchietto retrovisore, giorno dopo giorno, li vede invecchiare, li vede quando sono appena svegli e quando tornano dal lavoro stanchi morti, e passa il tempo ad immaginarsi la loro vita. Finché nella sua vita irrompe Margherita, con la sua vita sregolata, con i suoi problemi di memoria, con i suoi segreti. E tutto cambia. Fuori e dentro di lui.