martedì 24 dicembre 2013

Viva PIF e il suo film ‘La mafia uccide solo d’estate’



Arturo: “Ma la mafia ucciderà anche noi?”
Il padre di Arturo: “Tranquillo. Ora siamo d’inverno. La mafia uccide solo d’estate”.


Bravo Pif! E’ il commento più in voga tra chi esce dalle sale in cui in questi gio
rni viene proiettato il suo primo film ‘La mafia uccide solo d’estate’, perché Pif non è uno di quei registi che ci si immagina impegnato nei grandi eventi mondani: Pif è uno di noi, uno che potresti incontrare quando vai al supermercato o in un pab mentre bevi una birra.

Girato a Palermo grazie al supporto dell’associazione Addiopizzo, il film è il risultato di un sapiente mix di elementi di finzione e filmati d’epoca che raccontano le stragi mafiose che sconvolsero la Sicilia tra gli anni ’80 e ’90 attraverso gli occhi ingenui di un bambino, Arturo. In questo modo vicende autobiografiche si sovrappongono a quelle storiche, con un effetto ironico e

Arturo infatti nasce nel giorno in cui Vito Ciancimino diventa Sindaco di Palermo e cresce nella Palermo surreale degli omicidi e delle stragi: quella di Viale Lazio del 1969, dell’omicidio del generale Dalla Chiesa, di Boris Giuliano, di Pio La Torre e Rocco Chinnici fino ad arrivare alle bombe di Capaci e di via D’Amelio del 1992. Qui inizia la sua carriera precoce di giornalista in erba, influenzata da due elementi principali: la mafia e Andreotti, che diventa il suo “divo” personale, venerato con tanto di poster appiccicato nella sua stanzetta. L’amicizia con un reale giornalista, l’intervista al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa poco prima della sua uccisione, l’esperienza di una mafia rappresentata come un male socialmente accettato segnano i primi passi nel mondo del giornalismo, mentre sul piano amoroso c’è uno stallo totale: Arturo è da sempre innamorato di Flora, sua compagna di scuola dai toni un po’ altezzosi che si trasferirà in Svizzera ma che rientrerà nella sua vita come assistente di Salvo Lima. Allo stesso modo anche i personaggi del film, così come è successo e succede ancora nella vita reale, si dividono in due tipologie, chi cerca di capire e combattere Cosa Nostra e chi invece si è girato dall’altra parte e non vede niente.

In questo modo PIF diverte e commuove, giocando su più registri e muovendosi con agilità al confine tra ironia e dramma, dimostrando che si possono affrontare temi seri e di un certo peso, come la mafia, anche con un sorriso. Il cast lo accompagna in questa missione: bravi soprattutto Alex Bisconti nell’interpretare Arturo bambino e Ginevra Antona nel ruolo di Flora, l’amatissima compagna di scuola di Arturo.

Un film digeribile, nonostante la serietà del tema trattato, anche grazie alla tecnica di ripresa ed al linguaggio che Pif è solito utilizzare in tv: l’idea del film nasce infatti dalla puntata sulla mafia del programma che conduce su Mtv, Il Testimone, un’idea vincente come confermato dal “premio del pubblico” ricevuto al Torino film festival 2013.

Insomma, grande Pif!


Pif in due righe:
Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, nato e cresciuto a Palermo, è il figlio del regista Maurizio Diliberto e ha già collaborato a diversi film: Un tè con Mussolini (1998) di Franco Zeffirelli, I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana.
Il suo esordio come autore su Italia 1 risale al 2001, in cui debutta come Iena, mentre nel 2007, su MTV, dà vita al suo primo programma individuale, Il testimone, in cui emerge come reporter molto particolare.

giovedì 21 novembre 2013

"La promessa": ovvero quando Sean Penn è tornato a sorprendermi




"Ho fatto una promessa Eric; tu hai l'età per ricordarti di quando questo contava"
Detective Jerry Black (Jack Nicholson)


Titolo originale: The Pledge
Anno: 2001
Genere: drammatico
Regia: Sean Penn
Soggetto: Friedrich Dürrenmatt
Sceneggiatura: Jerzy Kromolowsky, Mary Olson-Kromolovski
Fotografia: Chris Menges


Produttore: Michael Fitzgerald, Sean Penn, Elie Samaha
Musiche: Klaus Badelt, Hans Zimmer
Interpreti e personaggi:
Jack Nicholson: Jerry Black
Robin Wright Penn: Lori
Patricia Clarkson: Margaret Larsen
Benicio del Toro: Toby Jay Wadenah

Ogni tanto non riuscire a dormire porta a grandi risultati. Questa notte sono incappata per caso in un vecchio film diretto da Sean Penn e, memore di Into the wild (altro film in cui si è cimentato nei panni di regista), ho optato per l'abbandono definitivo del mio stato di fastidioso dormiveglia per concentrarmi interamente su questo gioiellino.

Ispirato all'omonimo romanzo poliziesco di Friedrich Dürrenmatt, La promessa (The Pledge) è un film che, al contrario del libro, è ambientato nella provincia americana dei nostri giorni, fra le montagne del Nevada.

Qui, Jerry Black (Jack Nicholson), un poliziotto ossessionato dal brutale omicidio di una bambina, non è soddisfatto di come si è conclusa l'indagine, ovvero con il semplice arresto di un balordo (che in realtá non centrava niente e che si uccide nel commissariato).
Per questa frustrazione che non gli fa trovare pace, Black inizia una silenziosa caccia all'uomo: si ritira nella zona, compra un distributore di benzina in cui lavora in solitudine, conosce la barista del posto, con cui va a vivere e aspetta che il folle si faccia di nuovo vivo pensando ogni momento a lui.

Insieme alla donna, nella vita dell'ex poliziotto entra anche la figlia di lei (dell'età delle bimbe uccise) , di cui Black, ossessionato dall'uomo, non esita a servirsi come esca per poi mandare definitivamente la sua vita a rotoli e precipitare nella follia.

Trama a parte, il film, presentato in concorso al 54º Festival di Cannes, non può essere definito un tipico giallo: il lirismo dell’atmosfera, la direzione di Sean Penn e la magistrale presenza dell'istrionico Jack Nicholson rendono La promessa (The Pledge) un film da non perdere dove nulla viene lasciato al caso ed ogni cosa è intrisa di denso significato.

A partire dalle immagini-cartolina distribuite nella pellicola, compresa l'immagine del finale con cui inizia il film, in cui corvi (simbolo funereo) che volano in un paesaggio soleggiato ripreso in dissolvenza, ti fanno immergere prepotentemente nell'atmosfera che Sean Penn vuole ricreare.

mercoledì 30 ottobre 2013

Giovani Ribelli - Kill your Darlings: una Beat Generation in utero





Regia: John Krokidas
Soggetto e sceneggiatura: John Krokidas
Fotografia: Reed Morano
Musiche: Nico Muhly
Interpreti: Daniel Radcliffe (Allen Ginsberg), Dane DeHaan (Lucien Carr), Elizabeth Olsen (Edie Parker), Michael C. Hall (David Kammerer), Ben Foster (William Burroughs)
Origine: U.S.A., 2013
Durata: 143’

Allen Ginsberg, William Burroughs, Jack Kerouac. I giovani padri maudit della Beat Generation sono tutti presenti in Giovani Ribelli - Kill your Darlings, un film fresco e appassionato dell'esordiente John Krokidas, premiato alle Giornate degli autori della 70ma Mostra del cinema di Venezia.

La storia è ambientata infatti nel 1944, quando i tre protagonisti, ancora acerbi e non consapevoli di ciò a cui daranno vita con la loro penna, incontrano il vero protagonista del film, Lucien Carr (Dane DeHaan), motore culturale e sessuale della storia, che farà esplodere la pazzia del gruppo, dando a Ginsberg (Daniel Radcliffe), Kerouac (Jack Huston) e Burroughs (Ben Foster) la consapevolezza di avere qualcosa di importante da dire e li spingerà verso la ribellione contro l'università, contro i genitori e il mondo per creare la controcultura Beat.

L’educazione sentimentale e poetica del piccolo Allen Ginsberg, matricola della Columbia University che sta per compiere 18 anni, inizia infatti nel momento in cui viene sedotto da un gruppo di giovani ribelli della letteratura che lo iniziano alla vita e alla poesia: tra loro c'è un William Burroughs (Ben Foster) ancora trentenne che, come lo stesso Ginsberg, non ha ancora scritto una parola e un Jack Kerouac (Jack Huston) agli albori della gloria.

Ginsberg osserverà le vite dei suoi amici mentre vanno alla deriva, tra droga, eccessi, lussuria, gelosie, problemi con i genitori e con le istituzioni in genere e vedrà crescere in lui una passione omosessuale perturbante nei confronti di Lucien Carr, che risponderà alle sue attenzioni con momenti di affetto e pulsioni profonde interrotte da momenti di civetteria da ragazzina tredicenne (tra l'altro, voci dicono che Dane avrebbe detto di “essersi innamorato” di Daniel sul set).

Il film non indugia tanto sul lato letterario della vicenda, dunque, quanto su quello umano, e ritrae gli scrittori ribelli nelle vesti di semplici ragazzini negli anni universitari, in cerca di una fuga dal classico, di una rottura degli schemi, di una libertà di espressione consona alle loro grandi aspirazioni. Una sorta di ricerca delle origini del mito insomma.

Anche il Ginsberg che ci viene presentato è un Ginsberg che non siamo abituati a vedere: l'ormai 24enne Daniel Radcliffe lo interpreta negli anni del passaggio da bravo figlio represso e rispettoso ad audace poeta della Beat Generation, turbato dal rapporto drammatico con la madre a cui era molto legato e che era affetta da una rara malattia psichica.

Un film duro che parla di libertà e delle conseguenze che riuscire a raggiungerla comporta, che si conclude col celebre delitto a sfondo sessuale di David Krammerer maturato proprio tra quei ragazzacci ribelli che rivoluzioneranno la letteratura americana.

Musica notevolissima, infine, di Nico Muhly, che spazia da Jo Stafford alle Andrews Sisters, con un gran brano di Pete Doherty che chiude il film.

Insomma, bella la gioventù, l'arte, la poesia, la sessualità incerta e tormentata, e quindi per la proprietà transitiva, bello anche il film.

giovedì 1 agosto 2013

Il responsabile delle risorse umane....è tra noi? E soprattutto, è umano?

Titolo: Il responsabile delle risorse umane
Titolo originale: The Human Resources Manager
Regia: Eran Riklis
Attori principali: Mark Ivanir, Guri Alfi, Noah Silver, Rozina Cambos, Julian Negulesco.
Genere: Drammatico
Durata: 103 min.
Uscita: Dicembre 2010.







Vista dall'esterno, da chi non conosce questa professione, il mestiere del responsabile delle risorse umane, così come degli addetti al reparto delle risorse umane, può riassumersi in due paroline magiche: assumere e licenziare. E quindi selezionare i candidati, chiamarli a colloquio e decidere della loro sorte, nel bene e nel male.

Talmente meccanico che alla fine uno si abitua a tutto e si ripara dietro ad una cortina di ferro che trasforma candidati e dipendenti in persone qualunque, senza una vera identità e senza un vero volto da ricordare.


E' quello che succede al protagonista de Il responsabile delle risorse umane di un panificio industriale di Gerusalemme, messo alle stretta da un giornalista d'assalto per non essersi interessato alla morte tragica di una sua dipendente, rimasta uccisa in un attentato terroristico in Israele.

Un mix di senso di colpa e il fatto che nessuno reclama il corpo della donna fanno il resto: la decisione di partire con il feretro della ragazza alla ricerca di un parente che si presti a riconoscerla porterà il manager in un villaggio rumeno, allontanandolo dal suo lavoro che lo assorbe al cento per cento e da una famiglia in cui è già poco presente.


Un road movie israeliano insolito, dalla trama originale, tratto da un romanzo di Abraham B. Yehoshua, in cui seguiamo i personaggi nel loro viaggio fisico e spirituale sulle strade di un'Europa gelida e sterminata, che li farà crescere, scoprire, accettare e incontrare, alla scoperta di un'umanità perduta che verrà ritrovata proprio in quell'est Europa dimenticato e sottostimato. Il cambiamento è dimostrato dalla riscoperta dei nomi dei personaggi, della loro identità, mentre all'inizio del film essi venivano contraddistinti meramente dal ruolo sociale ricoperto: la lavapavimenti, il responsabile delle risorse umane, il giornalista, il console israeliano ecc.

Tutto sommato Il responsabile delle risorse umane è un film surreale, altrettanto duro quanto ironico, in cui Eran Riklis si allontana dalla magnificenza e dal conflitto eterno de Il giardino dei limoni, per assumere quasi i toni di farsa (un tank come carro funebre) pur celando una profonda riflessione sull'illogicità, l'indifferenza e la frenesia del mondo moderno.

martedì 9 aprile 2013

"Come un tuono", una sorpresa.


Titolo originale: “The Place Beyond the Pines”
Genere: Drammatico
Regia: Derek Cianfrance
Sceneggiatura: Derek Cianfrance, Ben Coccio, Darius Marder
Musiche: Mike Patton
Durata: 140 minuti
Cast: Ryan Gosling, Eva Mendes, Bradley Cooper, Rose Byrne, Craig Van Hook, Olga Merediz, Anthony Angelo Pizza Jr., Mahershala Ali, Rev. John Facci, Ben Mendelsohn
Fotografia: Sean Bobbitt
Paese: USA 2013


Anche questa volta sono andata al cinema sapendo poco o niente del film che andavo a vedere e anche questa volta mi sono stupita. A mia discolpa bisogna però dire che titoli, locandine, ma anche in parte gli stessi trailer, invece di svelare il film lo nascondono ancora di più, lasciando un velo di dubbio sul potenziale spettatore.
Questa sera ho osato spendere i benedetti 7 Euro per Come un tuono, un film in cui poesia e drammaticità hanno danzato per due ore sotto lo sguardo d'autore del regista Derek Cianfrance, trentanovenne statunitense al suo terzo cortometraggio (tra i precedenti l’interessante Blue Valentine con lo stesso Gosling), uno sguardo silenzioso, complesso, lacerato e dark, dove l'unica via d'uscita sembra essere il crimine.




Come un tuono, in breve, racconta la storia di quattro uomini, e di due generazioni, che lottano per lasciarsi alle spalle un passato sanguinoso, di legami tra padri e figli che si costruiscono e si distruggono, di destini segnati da un passato che torna a bussare alla porta e rivendica attenzioni, nel bene e nel male.

Scendendo più nei dettagli, nella prima parte del film il protagonista principale è Luke (Ryan Gosling) uno stuntman, schivo e taciturno, un "duro" nomade e vagabondo che si esibisce in un circo, nello spettacolo del "Gioco della morte", compiendo una serie di incredibili evoluzioni a tutta velocità con la sua moto, rinchiuso all'interno di una gabbia sferica di acciaio.
Dopo aver rincontrato una sua ex-amante, Romina (Eva Mendes) e aver scoperto della nascita di suo figlio, lascia lo spettacolo ambulante del “Globo della morte” in cui ogni sera si esibisce. Siamo  per le strade secondarie di Schenectady, nello Stato di New York, e Luke decide di darsi alle rapine, sfuttando le sue straordinarie capacità di pilota, per mantenere Romina e il figlio, che però nel frattempo si è già trovata un altro uomo.

La posta in gioco si alza quando Luke si trova ad affrontare l'agente di polizia Avery Cross (Bradley Cooper), che farà di tutto per incastrarlo, riportando a galla vecchie storie irrisolte.
Tutto questo da il via alla seconda parte del film, un vero e proprio film nel film, in cui i peccati commessi nel passato si rifletteranno sulla vita di due liceali.
L’unico rifugio allora sembrerà essere quello che in lingua mohawk viene definito “the place beyond the pines”, il posto al di là del bosco di pini, da cui deriva il titolo originale in inglese.

E il cerchio si chiude...anzi è proprio la figura del cerchio che caratterizza questo film sia formalmente (la sfera dello stuntman, la ruota panoramica) sia narrativamente (il ritorno di Luke dopo un anno, i figli che reiterano i comportamenti dei padri), dando l'idea di un destino già da tempo segnato.

Con questo film fortemente voluto e passato per ben 37 riscritture nell’arco di cinque anni prima di trovare un produttore, Derek Cianfrance riconferma così la sua bravura registica e il suo stile caratterizzato da scene volutamente lente, dove l’attenzione si concentra sui corpi degli attori, sui loro volti e sui loro sguardi, cercando di catturare il sentimento nell'immagine. Nonostante questo, per quanto non manchino attori all'altezza del proprio ruolo (da Bradley Cooper a Eva Mendes, fino a Ryan Glosling,  Ray Liotta e Rose Byrne), rimangono diversi punti irrisolti che non riescono ad espletarsi al termine del film, che lascia un bel ricordo, non però incancellabile.

lunedì 1 aprile 2013

Educazione Siberiana, l'Eastern di Salvatores

Titolo originale: Educazione siberiana
Regia: Gabriele Salvatores
Soggetto: Nicolai Lilin
Sceneggiatura: Gabriele Salvatores, Stefano Rulli, Sandro Petraglia
Lingua originale: Inglese
Paese di produzione: Italia
Anno: 2013
Durata: 110 min
Genere: Drammatico

È folle volere troppo. Un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore può amare!”. Nonno Kuzja

“L’educazione siberiana è uno strano tipo di educazione. E’ un’educazione criminale, ma con precise e, a volte sorprendentemente condivisibili, regole d’onore”. Gabriele Salvadores

“Dobbiamo avere rispetto per tutte le creature viventi, eccetto la polizia, i banchieri, gli usurai. Rubare a queste persone è permesso”. Nonno Kuzja

"La fame viene e scompare, ma la dignità, una volta persa, non torna mai più". Nonno Kuzja




Educazione Siberiana, l’ultimo film del regista premio Oscar Gabriele Salvatores ancora in programma in molti cinema italiani, può essere definito un tentativo riuscito del cinema italiano di oltrepassare i confini nazionali. Tratto dall’omonimo romanzo di Nicolai Lilin e ambientato in una regione meridionale della Russia (Transnistria, Moldavia Orientale) tra il 1985 e il 1995, il film descrive infatti un mondo molto lontano da quello a cui siamo abituati e da quello che ci si potrebbe aspettare di vedere in una pellicola diretta da un regista italiano.

I due protagonisti principali sono due ragazzini, Kolima e Gagarin, due amici di sangue e di affetto a cui viene impartita da Nonno Kuzja (l’incredibile John Malkovich) la cosiddetta “educazione siberiana” del clan degli Urka, un’intera comunità di criminali siberiani trapiantata a Fiume Basso, in cui vigono regole tanto semplici quanto ferree e spartane che non è possibile violare senza andare incontro a severe punizioni, incluso l’allontanamento dalla comunità se non proprio la morte.

I due vengono così armati di picca e iniziati alle rapine dal saggio Malkovich, che insegna però loro anche il ferreo codice etico e comportamentale che gli Urka devono rispettare: rubare è lecito ma solo a polizia, banchieri e usurai; è vietato possedere più denaro di quello necessario; non si possono conservare soldi in casa poiché sono considerati una cosa sporca; è vietato avere a che fare con la droga; è necessario rispettare gli anziani e proteggere i deboli.

Crescendo però, i “sani” principi dei due ragazzi si devono scontrare con un mondo caratterizzato da un sistema di valori in declino, quale era la Russia all’epoca del crollo del muto di Berlino e del disfacimento dell’allora immensa URSS, in grado di travolgere non solo loro stessi, ma anche l’intera comunità a cui appartengono. Anche all’interno del clan dei “criminali onesti” inizia a prendere piede la corruzione e l’aria “viziata” dell’ovest, un pericolo che porterebbe a un cambiamento irrimediabile.

Emerge così il tema universale della doppia anima che convive in ciascuno di noi e dei possibili noi che si realizzano: Gagarin, una volta ritrovata la libertà dopo essere stato in carcere sette anni per rapina, ricerca un futuro diverso da quello dei “criminali onesti” e diventa un pericolosissimo criminale-terrorista islamico, mentre Kolima sceglie di continuare a seguire le leggi dei padri, intraprendendo l’importante mestiere del tatuatore, anche se per scovare l’uomo che ha violentato Xenja, la figlia del medico locale affetta da demenza (del quale lui però sembra essere innamorato) si arruola nell’esercito russo e sarà costretto ad infrangere parte dei suoi codici d’onore.
E non dico altro della trama per non rischiare di far perdere il gusto della visione.

Vorrei invece evidenziare la particolare attenzione riservata ai tatuaggi, che  nella tradizione russa non vengono fatti per ragioni estetiche o per scolpire un ricordo così come in Occidente, ma per raccontare la propria vita: è il tatuatore che, dopo avere ascoltato la tua storia, decide cosa tatuarti addosso. Ed è per questo motivo che se due siberiani desiderano conoscersi a fondo, la prima cosa che fanno è una sauna insieme in cui possono leggersi reciprocamente i corpi, e quindi le storie che questi conservano. Non è un caso che lo stesso Lilin viva in Italia dal 2003, dedicandosi a tempo pieno alla nobile arte del tatuaggio.

In questo modo Salvatores è riuscito così a costruire un altro film degno di nota per tecnica e immagini, che segna nella sua carriera un vero e proprio cambio di rotta rispetto ai suoi ultimi lavori e che è in grado di raggiungere un pubblico trasversale, anche se è stato accusato dalla critica di mancanza di sceneggiatura e di un finale troppo rapido e poco comprensibile.

Vincente anche la scelta del cast, costituito in modo estremamente eterogeneo e per lo più da bravi esordienti, quali Arnas Fedaravicius e Vilius Tumalavicius, alla loro prima esperienza cinematografica, eccezion fatta per John Malkovich - attore, regista e produttore con una lunga carriera alle spalle - e per la giovane promessa Eleanor Tomlinson, nel ruolo di Xenja, la ragazza con disturbi mentali.

Due parole anche sul giovane Lilin, scrittore russo naturalizzato italiano, classe 1980, alla sua prima opera prima, di cui si narra che dopo aver visto Mediterraneo abbia chiesto a Salvatores di dirigere la trasposizione cinematografica del suo romanzo (scritto interamente in lingua italiana, sebbene tradotto in 14 lingue).



sabato 19 gennaio 2013

Ken Loach: dalla parte degli operai alla parte degli angeli




Titolo: La parte degli angeli
Titolo originale: The Angel's share
Genere: Commedia, Drammatico
Regia: Ken Loach
Sceneggiatura: Paul Laverty
Attori: John Henshaw, William Ruane, Roger Allam, Daniel Portman, Paul Brannigan 

La parte degli angeli, l'ultimo film di Ken Loach, è una semplice storia di outsider dei giorni nostri da cui emerge la visione di un regista che crede ostinatamente nelle persone.

Noto al pubblico come cantore della classe operaia, a spingere Ken Loach a realizzare questo film è stata infatti la constatazione che, verso la fine dello scorso anno,  in Gran Bretagna il numero di giovani disoccupati ha superato per la prima volta la quota di un milione. D'altronde non è la prima volta in cui Ken Loach affronta temi quali la disoccupazione e il riscatto sociale, anche se lo fa con un particolare sense of humor (lo stesso utilizzato ne Il mio amico Eric) che rende il fil più leggero e a tratti comico.


Protagonista è Robbie (Paul Brannigan), un ragazzo cresciuto nella periferia di Glasgow, le cui cicatrici riflettono un passato molesto. Robbie ha infatti appena scontato una pena in un carcere minorile per rissa dovuta a futili motivi e si ritrova a lottare per essere reinserito nella società, per avere un lavoro e per essere padre: sta per avere un figlio da Leonie (Slobhan Relly), una ragazza a cui tiene moltissimo, viene considerato dai genitori di lei soltanto un teppista in erba incapace di garantire alla figlia e al futuro nipote una vita dignitosa. 

Mentre sconta una condanna a svolgere lavori socialmente utili, Robbie conosce Rhino, Albert e Mo, oltre che Harry, l'assistente sociale che coordina il programma di reinserimento per ex carcerati e che intuisce le innati e stupefacenti qualità di cui è dotato Robbie: un fiuto per i migliori whisky di malto del mondo che aprirà la strada del riscatto sociale a lui e alla sua allegra combricola di ex carcerati.
E così si spiega anche il titolo del film: la parte degli angeli è quella piccola percentuale di whisky (2% circa) che, durante l’invecchiamento in botte, svanisce, evapora attraverso il legno e si dissolve nell’aria per essere offerta appunto agli angeli. 

Premiato della Giuria presieduta da Nanni Moretti al Festival di Cannes di quest’anno, La parte degli angeli non fa certo parte del vero e proprio cinema di lotta per cui il regista si è fatto conoscere, ma si tratta piuttosto di una rappresentazione un po' favolistica di cosa può succedere in quelle corcostanze fortuite in cui la vita ci offre un'occasione, che ognuno poi coglie a modo suo, secondo le proprie aspirazioni e secondo le proprie abitudini. Ma, forse, anche questo è soltanto un nuovo modo di esorcizzare e combattere le ingiustizie.

mercoledì 2 gennaio 2013

Kajal: le esperienze di guerra e di vita di Maria Cuffaro



Titolo:
 Kajal

Autrice: Maria Cuffaro
Casa editrice: Edizioni ImprimAtur 
Costo: €16,00
"Vi racconterò della guerra, non come donna o come madre, ma come giornalista, vi racconterò come si nascondono le notizie, di cosa vuol dire trovarsi sotto il fuoco, avere paura". 

"La realtà la puoi solo capire se ti sporchi le mani: non basta osservare, a volte bisogna anche vivere."


Si chiama "Kajal", come la matita nera che Maria Cuffaro mette sempre sulle e dentro le palpebre, quasi a simboleggiare l'unione tra Occidente e Oriente che ha caratterizzato la sua vita, visto che questo libro-racconto raccoglie una serie di istantanee in cui l'inviata conduttrice del TG3 ritrae le sue esperienze da inviata, oltre che di donna e mamma, svelandoci i retroscena del suo lavoro e della sua vita.
Nata da padre siciliano e madre svizzero-indiana, Maria Cuffaro ha una lunga carriera giornalistica alle spalle che l'ha portata a viaggiare tra Gaza e Cambogia, tra Kashmir, Iraq e Stati Uniti: giornalista del TG3 (dal 1989), autrice di inchieste e reportage come, tra i tanti, quelli in Asia, Africa, Sud America e quello sulla strage di Nassirja, ha scritto anche per il Manifesto, l'Espresso, Avvenimenti e ha lavorato con Michele Santoro in trasmissioni come Il rosso e il nero, Tempo reale, il Raggio Verde, Sciuscià.

In kajal Maria Cuffaro parla finalmente di sé, lasciando trapelare tutta la rabbia, le mascelle serrate, ma anche il coraggio, la forza di volontà e la sensibilità di colei a cui Marcello Dell'Utri  si era rivolto con l'appellativo“la faccia dark, un po’ gotica” di certi giornalisti di Raitre. 


Ma oltre agli scorci della bambina che era in Sicilia, della storia della sua famiglia e della sua esperienza di inviata di guerra nei posti più difficili del Mondo, nel libro troviamo anche le esperienza vivide delle vittime, dei carnefici e dei sopravvissuti che la storia ha dimenticato, viste attraverso i suoi occhi truccati appunto col kajal.

Scendendo nei dettagli, al centro del libro c’è l’Iraq del 2004 e l'assedio di Nassiriya, con i militari italiani lasciati a subire gli attacchi dei guerriglieri senza avere a disposizione adeguati mezzi per difendersi in quella che il Governo insisteva a definire una "missione di pace". Ma Kajal è popolato soprattutto di persone che la storia ha dimenticato, eroi ai margini come il reporter argentino Mario Podestà morto in Iraq nel 2003, persone invisibili come gli zingari o le prostitute italiane e le loro vite, conosciuti quando, travestita da zingara o da prostituta, girava per Roma e Milano cercando lavoro ed elemosina, nel tentativo di entrare nelle loro vite, conoscerle, viverle e raccontarle. 
E sempre nel libro, però, accanto alla guerra, alla sofferenza, all'adrenalina provocata dallo scoppio delle bombe a un palmo di naso, accanto al desiderio di essere pronta testimone insieme alla sua troupe di ciò che accade, c’è Lorenzo, il figlio di Maria Cuffaro, e la sua legittima paura che la sua mamma muoia. Una presenza che comporta delle scelte che a volte implicano ancora più coraggio di quello finora dimostrato.
Quello che mi colpisce particolarmente di questo libro è la capacità dell'autrice di coinvolgere il lettore negli eventi, nei luoghi, nelle sensazioni, nelle confidenze ed nelle emozioni descritte sia nel suo essere che nel suo significato, di rendere visibile la guerra e di rendere vicine e a portata di mano cose lontane. Non per altro, tra i premi vinti da Maria Cuffaro figurano anche il premio Ilaria Alpi (2005) e il premio Maria Grazia Cutuli (2007).

"PELLE" di Erica Zanin

"PELLE" di Erica Zanin
Un romanzo in vendita su www.ilmiolibro.it

"PELLE", il mio primo romanzo che consiglio a tutti!

Siamo nella Milano dei giorni nostri, in quella zona periferica che da Greco conduce a Sesto San Giovanni. In un autobus dell'ATM, un autista, ormai stanco del suo lavoro, deve affrontare una baby gang che spaventa i suoi passeggeri. Si chiama Bruno ed è uno dei tanti laureati insoddisfatti costretti a fare un lavoro diverso da quello da cui ambivano: voleva fare il giornalista e invece guida l'autobus nella periferia di Milano. Ma non gli dispiace e non si lamenta. E' contento lo stesso: è il re del suo autobus e i suoi passeggeri sono solo spunti interessanti per i racconti che scrive. Li osserva dallo specchietto retrovisore, giorno dopo giorno, li vede invecchiare, li vede quando sono appena svegli e quando tornano dal lavoro stanchi morti, e passa il tempo ad immaginarsi la loro vita. Finché nella sua vita irrompe Margherita, con la sua vita sregolata, con i suoi problemi di memoria, con i suoi segreti. E tutto cambia. Fuori e dentro di lui.