domenica 16 dicembre 2018

AUTOTERAPIA DI MAURIZIO RUGGIANO: QUANDO LE FERITE DIVENTANO LUCE



"L'arte è una ferita che si trasforma in luce", Braque.

Classe 1966, una collezione di disagi e una serie di relazioni travagliate alle spalle tra cui quella conflittuale con i propri genitoi abusi sessuali e il proprio vissuto di omosiessualità.

E la ricerca. La ricerca di se stesso ad ogni costo, e di un modo per ricucire gli strappi, in monasteri francescani, così come attraverso il buddismo tibetano, la macrobiotica e la mistica sufi, e il superamento del trauma attraverso l'arte e l'autoanalisi che questa implica.

Il risultato? Installazioni, foto, video, computergrafica, arazzi composti con oggetti riciclati, come immagini simboliche di blocchi psichici. Crudezza e candore, una vertigine di corpi, sessi, lotte e emozioni sfilano di fronte ai volti di spettatori quasi anestetizzati dalla vita, per cercare di sconvolgerli, di trapiantare un germe in loro.

È l'Autoterapia di Maurizio Ruggiano, una necessità espressiva, ma anche un processo di confessione, elaborazione e trasformazione con ambizione alla funzione terapeutica.



E quando parliamo di trasformazione ci riferiamo al mutamento a 360°: un rito liberatorio che vadalla trasformazione di sé, alla lavorazione dei feticci e dei materiali di scarto, per mettere ordine nel disordine della vita.

Domando perché come sfondo delle sue opere inserisce sempre delle linee verticali colorate."Per rimanere ancorato alla realtà, mentre la mente viaggia" risponde, circondato da vecchi peluches ingabbiati e video con un'a storia emotiva lacerante.


Un artista a tutto tondo, formatosi all'Accademia di Belle Arti di Palermo, che fino al 26 gennaio 2019 espone le sue opere presso l’Associazione Nuvole di Palermo, in una mostra personale a cura di Luciana Rogozinski.

martedì 4 dicembre 2018

ROMA DI CUARON: ECCO PERCHE’ DEVI CORRERE AL CINEMA




«Siamo tutte sole», disse la padrona di casa parafrasando la famosa frase di mia madre: «Nasciamo sole e moriamo sole».

Titolo originale: Roma
Genere: Drammatico
Regia: Alfonso Cuarón
Attori principali: Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Marco Graf, Daniela Demesa, Diego Cortina Autrey
Anno e paese di produzione: Messico, USA, 2018
Durata: 135 minuti
Uscita al cinema: lunedì 3, 4 e 5 dicembre 2018
Distribuzione: Cineteca di Bologna




Il consiglio è: correte al cinema per non perdervi la possibilità di vedere l’ultimo capolavoro di Cuarón sul grande schermo. Avete tempo fino al 5 dicembre (anche se il Cinema Beltrade di Milano ha aggiornato la programmazione proponendolo fino all'11 dicembre), poi, dal 14, Roma sarà disponibile su Netflix. Ma non sarà sicuramente la stessa cosa.
Perché?
Perché un film girato in bianco e nero in 65 millimetri ha bisogno del buio della sala per essere gustato appieno. Perché le coraggiose sale indipendenti che hanno deciso di proiettare “Roma” sono state minacciate di rappresaglie e ritorsioni. Perché, dopo il gran rifiuto di Cannes, che ha escluso i film prodotti dalle piattaforme (tra cui quello dei fratelli Coen), Roma è riuscito comunque a trionfare all’ultima Mostra di Venezia.
E, se tutto questo non bastasse, perché Roma è un film di una straziante bellezza, il ritratto di una famiglia durante gli Anni Settanta a Città del Messico.

Una storia all’interno della storia, dal macro, al micro: in una stagione di profonda instabilità politico-economica in cui le tensioni sociali non tardano a farsi sentire, Cleo si occupa di accudire con amore e devozione, 24 ore su 24 no stop, marito, moglie, nonna, quattro figli + un cane, in una famiglia benestante in cui presta servizio come domestica tuttofare.
E in un bellissimo bianco e nero, Cuarón racconta la solitudine e la dignità umana profonda di questa donna, la sua quieta implosione che la porta a sorprendersi di quanto giocare a "fare finta di essere morta" sia sorprendentemente piacevole, un po’ come cantava Bjork:



I play dead,It stops the hurtingI play deadAnd the hurting stops.





E se anche voi vi chiedete, così come ho fatto io, cosa c’entra Roma con tutto questo, Beh, eccovi la soluzione: Roma è un quartiere medioborghese di Città del Messico.

martedì 4 settembre 2018

L’isola dei cani e la distopia di Wes Anderson

Titolo originale: Isle of Dogs
Regia: Wes Anderson
Interpreti (voci originali): Bryan Cranston, Bill Murray, Edward Norton, Liev Schreiber, Greta Gerwig, Jeff Goldblum, Bob Balaban, Harvey Keitel, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Francesc McDormand, F. Murray Abraham, Ken Watanabe, Yoko Ono
Distribuzione: Fox
Durata: 101′
Origine: USA, 2018




«Non sarei in grado di spiegarvi con esattezza tutto il processo creativo di questo film ma posso dirvi che due grandi fonti di ispirazione sono stati Akira Kurosawa e Hayao Miyazaki. Amo l’uso che fanno dei dettagli e dei silenzi, e come mettono in scena la natura. Senza dimenticare però La carica dei 101, il film Disney che amo di più. Mi piace ricordare sempre Tom Stoppard che dice di iniziare un lavoro non quando ha un’idea, ma quando ne ha due che si mischiano, che collidono».


Una terribile influenza canina. In un futuro distopico, nell’arcipelago giapponese.
Un’isola-discarica dove vengono deportati tutti i cani della Prefettura. L'Isola dei cani, appunto.


Dittature in agguato, studenti ribelli e animali cyborg a fare la guardia al potere. Rifiuti ammassati come sofisticate costruzioni di design.

E la storia d’amore tra un ragazzino e il suo cane perduto. E' Atari, il piccolo pilota icona della rivoluzione, in cerca del suo Spots, il primo cane deportato da Kobayashi.

Insieme a lui un gruppo di cani meticci, stanchi della loro condizione.

La purezza dell’infanzia, la ricerca spasmodica di simmetria, persino nell'ammasso di rifiuti che ricoprono l'isola.

Primo film distopico scritto, diretto e co-prodotto dal regista texano Wes Anderson. Un epico viaggio di formazione tra presente e passato, animato in stop motion, in cui parlare di un mondo futuro paradossale è un modo di parlare di quello che viviamo oggi.

E 5 anni per realizzarlo: i personaggi sono pupazzi e i paesaggi in cui si muovono sono modellini in scala.


“Ho messo insieme tutti quelli con cui avrei voluto lavorare in un film. Con alcuni di loro avevo già lavorato, con gli altri sognavo di farlo. Con un film di animazione è più facile avere tutti gli attori che vuoi. Nessuno può dirti: sono impegnato in quel periodo. Dare la voce a un personaggio è un qualcosa che puoi fare in qualunque momento e ovunque ti trovi“.


Un omaggio alla bellezza del cinema giapponese (in cui compare anche l’artista Yoko Ono), fatto di un umorismo complesso e sofisticato, con dialoghi densi è serrati, alternati a lunghi silenzi, con il giapponese non tradotto né sottotitolato (e sarà così in tutte le versioni del film, in qualsiasinazione).


E il buon Desplat lo capisce molto bene, con una partitura spigolosa e interessante. Una bella analisi sulla colonna sonora in questo post di Collateral Sound.


Curiosità

Perché guardare L'isola dei cani?
Perché è un piccolo capolavoro che nasconde tanto lavoro:

- Il film è stato girato in 445 giorni
- La crew era formata da 670 persone, incluse quelle che hanno scolpito e modellato tutti i pupazzi
- Il film è composto da 850 scene, 76 delle quali con animazioni 2D e stop motion
- 144.000 fotogrammi hanno coperto i 100 minuti di durata del film
- Il set più grande era lungo 9 metri. Il più piccolo era grande come un iPhone
- 1097: sono i pupazzi realizzati, dei quali oltre 500 umani e 500 cani
- Per realizzare il pupazzo di ogni animale protagonista ci sono volute circa 16 settimane
- Ciascun personaggio umano ha avuto 53 facce scolpite con differenti espressioni. Ciascuno con 48 differenti bocche per realizzare i dialoghi.

Da vedere.

La stanza delle meraviglie: quando il racconto si fa poesia



Titolo originale: Wonderstruck
Regia: Todd Haynes
Attori principali: Julianne Moore, Oakes Fegley, Millicent Simmonds, Jaden Michael, Cory Michael Smith. Cast completo
Genere: Avventura
Uscita: USA, 2017
Durata: 120 minuti



Tutti giacciono nel fango, ma qualcuno guarda le stelle.

Due epoche diverse, 1977 e 1927, ad alternarsi senza soluzione di continuità. Due città divise da centinaia di chilometri, Minnesota e New Jersey. Due bambini, Benji e Rose. Anche loro diversi. Ognuno con la sua personale odissea e col suo miraggio da rincorrere.
Solo la sordità li unisce, il loro esilio sonoro. Oltre ad un avventuroso viaggio intriso di corrispondenze e rimandi, attraverso una New York a colori per uno, in bianco e nero per l'altra. E al libraio, naturalmente.


Perché il mistero deve venire a galla. E se per Benji il mistero è il segnalibro di una libreria newyorkese sul quale trova un messaggio del padre che non ha mai conosciuto, per Rose è Lillian Mayhew (Julianne Moore), una diva del cinema muto che la ragazza vuole incontrare nel teatro dove sta portando in scena il suo spettacolo teatrale.


Intanto, il muto si alterna al parlato, e Space oddity di David Bowie a Also sprach Zarathustra di Richard Strauss, anche se la colonna sonora funziona in qualche modo come collegamento significante tra i due mondi.
Dietro tutto questo Todd Haynes e Brian Selznick. Il primo, modernissimo, sperimentale e sensibile regista statunitense, il secondo scrittore e illustratore americano dell'omonima opera grafico-letteraria (lo stesso di Hugo Cabret), nonché sceneggiatore stesso del film.

Insomma, in conclusione, un film visionario sicuramente da vedere, di una tenerezza assoluta, giocato su un gioco ipnotico di simmetrie, tra stupore e speranza.

Curiosità: il nome originale, Wunderkammer, significa letteralmente "gabinetti delle curiosità", ovvero quegli armadi o stanze ripiene di oggetti meravigliosi e reperti straordinari da conservare che germogliarono tra il Seicento e il Settecento, incoraggiati dalla maestosità del Barocco e dagli interessi scientifici dell’illuminismo. Da questi gabinetti, hanno poi avuto origine i musei.

sabato 2 giugno 2018

DOGMAN: IL WESTERN DE NOI ALTRI SI FA POESIA


Regia: Matteo Garrone
Attori principali: Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli
Genere: Drammatico
Uscita: Italia, 2018
Durata: 100 minuti



"Ho iniziato a lavorare alla sceneggiatura dodici anni fa: nel corso del tempo l'ho ripresa in mano tante volte, cercando di adattarla ai miei cambiamenti. Finalmente, un anno fa, l'incontro con il protagonista del film, Marcello Fonte, con la sua umanità, ha chiarito dentro di me come affrontare una materia così cupa e violenta, e il personaggio che volevo raccontare: un uomo che, nel tentativo di riscattarsi dopo una vita di umiliazioni, si illude di aver liberato non solo se stesso, ma anche il proprio quartiere e forse persino il mondo. Che invece rimane sempre uguale, e quasi indifferente", Matteo Garrone.

Impressioni

Il ringhio di un pitbull da combattimento. Un uomo piccolo e mite: Marcello. Un negozio di toelettatura, Dogman, appunto.

La periferia, proprio lì, sospesa tra tra metropoli e natura selvaggia, a bordo del mare. E il degrado.

Simone, un ex pugile, che intimidisce, taglieggia e umilia. Lo sguardo smarrito di Marcello in riva al mare. Sopraffazione e sottomissione. In un'Italia terra di nessuno.

La complessa realtà e la necessità che condiziona le scelte. Belve ferite. La quieta rivalsa del Canaro della Magliana, infine, e una nuova dignità riconquistata. Forse.


Curiosità



1. Marcello premiato al Festival di Cannes

"La mia vita è il cinema". È' Marcello Fonte a parlare, una grandissima sorpresa con alle spalle una storia emozionante di resistenza morale alle difficoltà della vita, nonché Palma d'oro a Cannes per il miglior attore in Dogman:
«Marcellooo!», ha urlato Benigni.
«Pensavano che non avessi capito ma invece io volevo godermelo. La vita è piena di cose brutte. "Facciamolo durare un po' di più" mi sono detto. E ho contato fino a tre» ha detto lui.

2. Un po' dramma, un po' western
Il mio film è anche un western, ha detto Matteo Garrone a proposito di Dogman. E infatti l'ambientazione è una periferia romana fatta di edifici all'apparenza disabitati, strade sterrate, muri scrostati, buoni che diventano cattivi e viceversa.

3. La trilogia della violenza
Dogman completa la trilogia sulla violenza, andando ad aggiungersi ai due precedenti drammi cupi ispirati alle storie vere di un'Italia di degrado, corruzione e iniquità:

- L'imbalsamatore (2002), ispirato alla vicenda di cronaca romana del "nano di Termini"
- Primo Amore (2004), che riprende Il cacciatore di anoressiche, il romanzo autobiografico del 1997 di Marco Mariolin.

Tra orrore, ossessione (per il bello, per il corpo perfetto, vivo o morto) e oscurità della mente umana.

4. Dieci minuti di applausi
Quelli che hanno accolto la proiezione ufficiale al Gran Theatre Lumiere.

GOHAR DASHTI E LA COLLISIONE DEGLI OPPOSTI. IN UNA FOTO



Un rimbalzo continuo tra ironia e amarezza, incanto e sofferenza, severità ed evasione. Risultato? Foto incisive, dal lessico raffinato e dall'audace simmetria creativa.

È Gohar Dashti, una delle autrici più interessanti della scena contemporanea iraniana, artista dalla cifra stilistica di rara suggestione, nonché mia coetanea (Ahvaz, Iran – 1980).

Lirismo e magnetismo. Una voce da ascoltare, e molto altro: gruppi di persone immortalati sullo sfondo di panorami incontaminati e remoti paesaggi desertici, gente vulnerabile, immersa in una natura possente e silenziosa, paesaggi surreali. Guerra e vita. E tutta la potenza di una foto.



lunedì 14 maggio 2018

AMERICAN HONEY, L'AMERICA IN UN MOSAICO



Titolo originale: American Honey
Regia: Andrea Arnold
Attori principali: Sasha Lane, Shia LaBeouf, McCaul Lombardi, Arielle Holmes, Crystal Ice
Genere: Commedia drammatica
Durata: 162 minuti
Prima data di uscita: 2016 (USA)
Regia: Andrea Arnold
Sceneggiatura: Andrea Arnold
Fotografia: Robbie Ryan


Impressioni..


Una ragazza poco più che adolescente + un gruppo di ragazzi scatenati che attraversa il Midwest a bordo di un minivan saturo di fumo e musica. Vendono abbonamenti a riviste porta a porta per guadagnare qualche soldo.
Poi, Star e Jack.

La foga, la rabbia, la gioia furtiva di un amore on the road, nato già in pezzi.

Lei, disinvolta e delicata, sveglia e sognatrice, un profilo delicato e quasi infantile, ma anche sensibile e sensuale. Lui, scatenato e carismatico.

Feste sfrenate e le braci di un fuoco intorno al quale ballare fino all'alba, a colpi di Rihanna.
La ricerca di vita, la bellezza, nonostante tutto, nonostante la sporcizia, nonostante la palude.

Ma non è tutto oro quel che luccica.

Un road trip che macina chilometri, senza portare da nessuna parte, tra una sigaretta, una canna e una canzone di Rihanna cantata a squarciagola. Frammenti di un viaggio senza una meta, che gira a vuoto e si ripete infinite volte, come un mantra. Giorno e notte.

L’America dei villini della classe medio-alta, gli scenari suburbani, le aree di parcheggio dei grandi camion e la vita negli impianti petroliferi.


La generazione dopo Larry Clark, dopo l'AIDS, il punk e la collera. Che non sogna più, anche se il Boss alla radio continua a cantare "Dream Baby Dream".

Andrea Arnold filma camera a spalla l’inseguimento di un'illusione di libertà, con un ritmo irrefrenabile. E La ricerca di vita e di amore "in a hopeless place". Con Jack o senza.

martedì 1 maggio 2018

6 palloncini + una lunga notte, un fratello e una sorella



Titolo originale: 6 Balloons.
Genere: Drammatico
Regia: Marja-Lewis Ryan
Attori principali: Dave Franco, Tim Matheson, Abbi Jacobson, Jane Kaczmarek, Maya Erskine, Jen Tullock
Anno e paese di uscita: USA,2018
Durata: 74 minuti
Colonna sonora: Heather McIntosh
Fotografia: Polly Morgan
Distribuzione: Netflix






Los Angeles. Una lunga notte, un fratello e una sorella.



I loro genitori ormai non sentono neanche più le richieste di aiuto di lui, tossicodipendente, non gli credono più.
Rimane solo lei ad aiutarlo, ma alla fine anche questa forma d'aiuto è una dipendenza, che la porta a occuparsi di lui anziché di se stessa, lottando per salvarsi dai demoni  senza farsi trascinare nell’abisso.

La condivisione del dolore, la distruzione e l' autodistruzione, ma anche l'affinità e la complicità tra fratello e sorella. E soprattutto l'impotenza.

Delicato, in un certo qual modo poetico, con la metafora della barca in mare che sta lentamente affondando che accompagna tutto il film, oltre all'uso di sovrimpressioni e di  inserti extra-narrativi.
Anche la fotografia di Polly Morgan richiama i colori lividi della notte e del corpo di Seth, il fratello.

E le due ciliegine sulla torta, una Abbi Jacobson al fianco di Dave Franco, che, tra l'altro, ha recentemente recitato insieme al fratello in The Disaster Artist e che questa volta per il ruolo di Seth ha deciso di tenere un profilo basso e ha perso 11 kg.

Distribuito in tutto il mondo da Netflix a partire dal 6 aprile 2018.

domenica 11 marzo 2018

Chiamami col tuo nome: tra cavità del cuore, botole del desiderio e buchi del tempo



Titolo: Chiamami col tuo nome
Autore: André Aciman
Traduzione: Valeria Bastia
Pagine: 271
Editore: Guanda
Anno: 2017
Voto: 4/5 

“A ciascuno di noi capita un periodo di ‘traviamento’: quando nella vita cambiamo strada e non troviamo più la ‘diritta via’. L’ha fatto anche Dante. Qualcuno si ravvede, qualcuno finge di ravvedersi, qualcuno non torna più indietro, altri rinunciano ancor prima di cominciare e altri ancora, per paura di smarrirsi, si ritrovano in eterno a vivere la vita sbagliata." André Aciman, Chiamami col tuo nome.

Siamo "da qualche parte nel Nord Italia", nell'estate del 1983, una di quelle estati che segnano la vita per sempre.

Elio ha diciassette anni, e per lui sono appena iniziate le vacanze estive che trascorrerà, come al solito, nella grande villa in campagna, insieme alla sua famiglia

E' qui che, in una splendida ambientazione italiana anni '80, come ogni anno arriva da New York "l'ospite dell'estate", il fortunato giovane letterato accuratamente selezionato dal professor Pearlman (il padre di Elio), che avrà l'occasione di trascorrere sei settimane in quel posto ameno per rivedere in tutta serenità il proprio manoscritto prima della pubblicazione.

E quello che per Elio sembrava essere soltanto "l'ennesima scocciatura" a cui dovrà cedere provvisoriamente la sua camera, si rivelerà la miccia di un desiderio inatteso prima, e di un rapporto profondo e complicato dopo. Fino al punto di non ritorno.

Nell'intermezzo, una storia di sguardi, corpi e scoperte con due protagonisti principali ben definiti e autentici. Da una parte Elio, un musicista diciassettenne un po' tormentato e pieno di contraddizioni, decisamente colto per la sua età, ma ancora acerbo e inesperto sul lato sentimentale e insicuro su come comportarsi e relazionarsi con Oliver.
Dall'altra parte Oliver, il ventiquattrenne americano neolaureato, "il classico tipo inavvicinabile" che subito conquista tutti con la sua bellezza e i modi anche disinvolti, quasi sfacciati, oltre che con i suoi Dopo!. Ma anche una persona piena di insicurezze, dubbi e desideri.

I due ragazzi hanno l'occasione di condividere conversazioni appassionate su libri e film, discussioni sulle loro comuni origini ebraiche, nuotate mattutine, partite a tennis, corse in bici e passeggiate in paese. Ma non solo.
Tra silenzi, giochi di sguardi, sfioramenti e malintesi, tra loro nascerà un desiderio inesorabile quanto inatteso e un'intimità totale, anche se il rapporto che si creerà tra i due "ebrei della discrezione" non sarà affatto facile.


Volevo essere come lui? Volevo essere lui? O forse volevo solo averlo? Oppure «essere» e «avere» sono verbi del tutto inadeguati nell'intricata matassa del desiderio, per cui avere il corpo di qualcuno da toccare ed essere quel qualcuno che desideriamo toccare è la stessa cosa, sono solo rive opposte di un fiume che scorre dall'uno all'altro, poi torna indietro e infine va di nuovo verso l'altro, e ancora, e ancora, un circuito perpetuo dove le cavità del cuore, come le botole del desiderio e i buchi del tempo e il cassetto a doppiofondo che chiamiamo identità, condividono una logica ingannevole, secondo la quale la distanza più breve tra vita reale e vita non vissuta, tra ciò che siamo e ciò che vogliamo, è una scalinata tortuosa progettata con l'empia crudeltà di M.C.

Insomma, un libro di straordinaria bellezza, uno di quei libri che vorresti non finissero mai, che racchiude una storia così intensa con uno stile poetico e allo stesso tempo immediato, diretto al punto giusto.

Perché la storia raccontata in questo libro, pur essendo sicuramente definibile una storia gay, non può comunque essere imprigionata in un genere. Ma se proprio dobbiamo catalogarlo "Chiamami col tuo nome" potrebbe essere definito un roman d’analyse, la storia della scoperta del mondo interiore di questo ragazzo di 17 anni, dei suoi dubbi e delle sue incertezze, sessuali e non, e il racconto in prima persona della difficoltà di stare al mondo che tutti abbiamo provato, indipendentemente dal nostro essere etero o omo.

A scriverlo, André Aciman, professore di letteratura comparata statunitense (anche se nato ad Alessandria d'Egitto in una famiglia ebraico-sefardita di origini turche), che conosce bene il nostro paese perché la sua famiglia vi si era trasferita nel 1965 per sfuggire alle persecuzioni degli ebrei promosse dal presidente Nasser.

La scrittura di Aciman ci trasporta in un mondo incantato, un mondo fatto di poesia e di musica ma anche di biciclettate e partite a tennis, un mondo romantico ma anche triviale, così come tenero e fragile ma anche brutale sul piano linguistico e fisico. Mi riferisco ad esempio alla scena della masturbazione con la pesca, di una carnalità impressionante che non credo dimenticherò mai.

La narrazione in prima persona è affidata ad Elio, e ci porta dritti nella sua testa, mostrandoci da vicino la profondità del suo tormento, l'inquietante attrazione provata per Oliver e la paura di non essere ricambiato o di essere addirittura respinto.
Lasciandosi trasportare dalle sue emozioni e dai suoi pensieri si finisce per rimanere intrappolati in una meditazione proustiana sul tempo e sul desiderio, tipico di quell'età della vita da cui nessuno vuole davvero staccarsi, pur senza volerci tornare mai, e non a caso Aciman è un grande esperto a livello accademico delle opere di Marcel Proust. E' lo stesso padre di Elio a spiegarlo in un modo veramente toccante: 


«La maggior parte di noi non riesce a fare a meno di vivere come se avesse a disposizione due vite, la versione temporanea e quella definitiva. Invece di vita ce n'è una sola, e prima che tu te ne accorga ti ritrovi col cuore esausto e arriva un momento in cui nessuno lo guarda più, il tuo corpo, e tantomeno vuole avvicinarglisi. Adesso soffri. Non invidio il dolore in sé. Ma te lo invidio, questo dolore. [...] Rinunciamo a tanto di noi per guarire più in fretta del dovuto, che finiamo in bancarotta a trent'anni, e ogni volta che ricominciamo con una persona nuova abbiamo meno da offrire. Ma non provare niente per non rischiare di provare qualcosa....che spreco!»

E mentre scorri le righe finali, capisci che ormai questa storia di formazione e di educazione sentimentale ti è entrata sotto la pelle e che non te ne libererai facilmente.
Mentre in bocca ti rimane il sapore della lontananza e della nostalgia.

sabato 16 dicembre 2017

DARK: La domanda non è dove. Ma quando.


Titolo
originale: Dark
Paese: Germania
Anno: 2017 – in produzione
Formato: serie TV
Genere: drammatico, thriller
Stagioni: 1
Episodi: 10
Durata media episodio: 43-55 min
Lingua originale: tedesco
Ideatore: Baran bo Odar, Jantje Friese
Regia: Baran bo Odar
Sceneggiatura: Baran bo Odar, Jantje Friese, Martin Behnke, Ronny Schalk, Marc O. Seng
Distributore: Netflix
Attori principali: Hofmann, Oliver Masucci, Jördis Triebel

La distinzione tra presente, passato e futuro è solo un’illusione ostinatamente persistente”. Einstein
"Non abbiamo scritto Dark pensando che dovesse piacere un pubblico internazionale, cercando di inserire cose di interesse per gli spettatori giapponesi o francesi e via dicendo. Abbiamo piuttosto cercato di raccontare qualcosa che avesse a che fare con la condizione umana e con domande universali e che pertanto fosse interessante per il pubblico internazionale. Forse anche per non porci il problema, ci siamo concentrati su un piccolo universo privato, sperando che avrebbe interessato il pubblico di tutto il mondo".  Jantje Friese



Partiamo da un presupposto: LA DOMANDA NON È DOVE. MA QUANDO.

E infatti, in Dark, il "dove" è abbastanza semplice: siamo a Winden, una piccola cittadina tedesca cupa e piovosa, oltre che minacciata da una grande centrale nucleare che sovrasta la foresta di abeti circostante.

Se passiamo a prendere in esame il "quando", invece, cominciano a sorgere un po' di problemi. Siamo nel 2019, ma siamo anche nel 1986 e nel 1953: tre dimensioni temporali differenti che, come in un gioco di prestigio, ogni trentatré anni si collegano.
Non c’è passato, presente e futuro, ma tutto il tempo è collegato come in un'enorme galleria scavata da un lombrico, un wormhole, anche meglio conosciuto come ponte di Einstein-Rosen.

Questa premessa dà origine a una trama intricata ma suggestiva, un intreccio labirintico fatto di strane scomparse di bambini che si ripetono nel tempo, un suicidio inspiegabile, misteri e oscuri segreti che quattro famiglie fortemente interconnesse si trascinano da tre generazioni.

Insomma, una serie articolata e complessa da binge-watching, da guardare necessariamente nel minor tempo possibile e con molta attenzione, altrimenti si corre il rischio di perdersi in uno spettacolo ipnotico che sta facendo discutere spettatori, filosofi e professori, in patria ma non solo.

Su questa prima serie Netflix prodotta in Germania, infatti, è stato detto di tutto e il contrario di tutto. A cominciare dalla somiglianza con Stranger Things (dovuta soprattutto al legame con gli anni 80), fino ad arrivare alla sua vicinanza alla struttura di scatole cinesi che caratterizza Lost, o al richiamo delle atmosfere oscure di Twin Peaks. Senza contare poi i molteplici riferimenti a opere che trattano i viaggi del tempo, Ritorno al futuro su tutti.




Una lavorazione durata 155 giorni, condensata in dieci episodi, inseriti nel catalogo Netflix a partire dal 1 Dicembre e nati dalla solida coppia creativa Baran Bo Odar e Jantjie Friese, rispettivamente regista e head writer della serie. Lui, classe 1978, premiato al Festival di Palm Screen come "regista da tenere d'occhio" per il suo primo film, The Silence, una cupissima storia di amicizia tra tre pedofili. Lei, sceneggiatrice poliedrica con un passato da attrice e produttrice.


Il tono di Dark, come già dice il nome, è ossessivamente cupo, con atmosfere create ad arte da una colonna parlante e accattivante in grado di dipingere attorno a Winden un’aura di autentico terrore e che ci aiuta ad altalenarci continuamente tra gli anni 80 e i giorni nostri grazie a un sapiente mix di pezzi indie/alternative con sprazzi di elettronica e di brani anni ’80, compreso il bizzarro riferimento al nostro Nino D'Angelo.

Molto bella è anche la sigla iniziale di Apparat che accompagna i titoli iniziali, tratta dall’album The Devil’s Walk (2011).



The Devil’s Walk 
Let’s go into bed Please put me to bed
And turn down the light
Fold out your hands
Give me a sign
Hold down your lies
Lay down next to me
Don’t listen when I scream
Bury your thoughts (doubts)
And fall asleep
Find out
I was just a bad dream
Let the bed sheet
Soak up my tears
And watch the only way out disappear
Don’t tell me why
Kiss me goodbye
For Neither ever, nor never
Goodbye
Neither ever, nor never
Goodbye
Neither ever, nor never
Goodbye
Goodbye

lunedì 18 settembre 2017

Dunkirk, la storia come non l'abbiamo mai vista. E mai sentita.




Titolo originale: Dunkirk
Genere: Azione
Regia: Christopher Nolan
Attori principali: Fionn Whitehead, Tom Glynn-Carney, Jack Lowden, Harry Styles, Aneurin Barnard
Durata: 106 minuti
Uscita: giovedì 31 agosto 2017



«Di tutti i film che ho fatto, è quello con la maggiore fusione tra musica, immagini e suoni», Christopher Nolan.
«Non c’è modo di battere il rumore delle bombe o delle onde, così ho dovuto scegliere un altro approccio. Per la maggior parte delle musiche, ho detto a chi le suonava di farlo sommessamente, ma con grande intensità», Hans Zimmer.

È' rumore, è Dunkirk, è l'ultimo film di Christopher Nolan.

Diciamolo pure che per quanto riguarda la trama non c'è molto da dire: siamo a Dunkerque, nel nord della Francia, a circa 70 chilometri di mare dal Regno Unito, all’inizio della seconda Guerra Mondiale, e quella che viene raccontato è l’episodio delle little ships, ovvero delle 3-400 barche e barchette che in una notte attraversarono quei sessanta chilometri di mare che separano le coste inglesi dalle spiagge di Dunkerque per riportare a casa centinaia di miglia di soldati inermi, assediati dall’esercito tedesco. Punto.

Anche i dialoghi sono ridotti all'osso, con una sceneggiatura di sole 76 pagine

In compenso parla Hans Zimmer, con la sua colonna sonora, con i rumori e gli effetti sonori circuenti e stordenti che danno il via a un nuovo capitolo nella cinematografia contemporanea.
Anche se, a ben vedere, dopo aver lavorato con il regista per altri 5 film, è lo stesso Zimmer a spiegare che in realtà «questa colonna sonora è di Chris Nolan. Questo film è la visione di un solo uomo. Questo film è quello in cui ho avuto il più stretto rapporto con un regista e nonostante lui non abbia mai suonato nemmeno una nota, ha in qualche modo suonato ogni nota».
E chapeau per Nolan allora, che pur non essendo un musicista ha concepito film e sceneggiatura con un "approccio musicale", dando vita ad una sorta di sinfonia sonoro-visiva claustrofobica e senza precedenti:

"C’è un’illusione acustica, se vogliamo chiamarla così, che si chiama “scala Shepard” e che avevo già usato in The Prestige con il compositore David Julyan. È un’illusione che fa credere che ci sia sempre un tono ascendente. È un effetto cavatappi. […] Ho scritto la sceneggiatura secondo questo principio, con tre linee temporali che danno una costante idea di intensità, di intensità crescente. Volevo costruire una musica con dei simili principi matematici", Christopher Nolan.

Quindi, è il tempo la chiave di Dunkirk.
Abbiamo tre differenti prospettive temporali, ciascuna delle quali viene scomposta, accorciata o dilatata per fluire in parallelo: una settimana nella vita dei soldati che aspettano sulla spiaggia di essere salvati; un giorno per l'attraversata di quel tratto di mare da parte di Mr. Dawson e figlio, che insieme a un amico prendono la loro barca per andare ad aiutare i soldati; un’ora di volo di Tom Hardy, prima che il carburante finisca definitivamente. E tre tre elementi della natura diversi, a rappresentare i vari stati emotivi - la spiaggia, come punto d'incontro tra speranza e disperazione, il mare, dove seppur non tutto è perduto, il pensiero della morte è sempre presente, e il cielo, che diventa un atto eroico spinto da assoluto altruismo. Come se non bastasse a queste stratificazioni si affiancano anche tre linee narrative diverse che nel montaggio si incastrano in vari modi, convergendo in un unico presente, pur raggiungendo i loro picchi in momenti differenti, in modo tale che la tensione in una delle tre parti è sempre assicurata.


E quel geniaccio di Nolan ha pensato di fare la stessa cosa con la colonna sonora. A partire dal rumore semplice quanto ossessivo del ticchettio del suo orologio da tasca, che Zimmer ha poi trasformato in uno snervante rumore di base e riproposto dall'inizio alla fine del film, seppur sintetizzato e modificato in vario modo. Che è poi il ticchettio dell'orologio dello Spitfire che il pilota Tom Hardy controlla più volte per calcolare mentalmente la benzina rimasta nel serbatoio.

Unendo il ticchettio alla tensione continua generata dall'incastro ad arte delle tre storie, Nolan e Zimmer hanno creato una colonna sonora che entrerà nella storia, basata, appunto, sulla scala Shepard.

E a sopperire al minimalismo dei dialoghi, accanto alla musica organica-industriale di Hans Zimmer, c'è il massimalismo delle immagini.
La cinepresa di Hoyte van Hoytema, il direttore della fotografia di Dunkirk, indugia ossessivamente, con primi e primissimi piani, sui volti dei soldati, sui loro sguardi, immortalandone l'istinto di sopravvivenza individuale che li muove.

Altra particolarità degna di nota. Il fim, che è stato pensato in esclusiva per il grande schermo e girato in parte con la tecnologia Imax, viene trasmesso in alcune sale anche in pellicola 70mm.

Quello a cui punta Nolan è proprio sfruttare a pieno tutta la potenza del mezzo cinematografico per ricreare l'esperienza più immersiva possibile: “Voglio farvi sentire come se foste là e l’unico modo di farlo è con la distribuzione nelle sale“. Questo è anche il motivo per cui ha scelto di schierarsi contro le piattaforme on demand, come Netflix, attaccando la loro politica di produzione e distribuzione, accompagnato da altri registi del calibro di Tarantino e Almodovar.

Insomma nulla viene lasciato al caso e ogni scelta, quella dei colori, dei movimenti, dei rumori, viene fatta con una precisione matematica. E il risultato è un'esperienza quasi fisica, che ti lascia seduto sulla sedia del tuo cinemino stanco, senza forze e a bocca aperta, con la sensazione di aver partecipato a qualcosa, qualcosa di grande, e di essere appena emersi da un bagno sensoriale in cui tutto passa per l'immagine e il suono. E cominci a capire quanto è assordante il silenzio.

lunedì 7 agosto 2017

Purity e il realismo isterico di Franzen


L’anima –disse a Pip –è una sensazione chimica. Quello che vedi sdraiato sul divano è un enzima nobilitato. Ogni enzima ha il suo lavoro da fare. Passa la vita a cercare la specifica molecola con cui è destinato a interagire. E un enzima può essere felice? Ha un’anima? Io rispondo sí a entrambe le domande! L’enzima che vedi qui sdraiato è stato creato per trovare la brutta scrittura, interagire con essa e migliorarla. Ecco cosa sono diventato, qui a galla nella mia cellula: un enzima correttore di brutta scrittura –. Poi aggiunse, con un cenno in direzione di Leila: –E lei ha paura che non sia felice.

Definito il nuovo capolavoro del Realismo Isterico, Purity, di Jonathan Franzen, è un romanzo “sinfonico” in cui all'improvviso ti ritrovi completamente immerso, circondato da tutti questi personaggi solo apparentemente slegati tra loro, ma che in realtà hanno tutti almeno una cosa in comune: a nessuno di loro piace come va il mondo. Lottano costantemente per cambiarlo e purificarlo, anche se poi sono i primi a sbagliare in continuazione, e a raccontare la propria verità, chi da giornalista, chi da scrittore e chi da artista.
Le loro vite vengono passate al setaccio e poi intrecciate tra loro. I pregi e i difetti, le abilità e le mancanze, i successi e i fallimenti: così, alla fine, arrivi a conoscere Pip e la sua cricca più di quanto tu conosca te stesso.

E partiamo proprio da Purity, ovvero Pip, per gli amici, la protagonista dal nome ingombrante che dà il titolo al libro.
23 anni, bella e intelligente, 130mila dollari di debito universitario e un solo, vero problema: Penelope, la madre single che l'ha cresciuta in una baracca nella Bay Area californiana, riservandole un amore esclusivo -nonchè occlusivo- e pieno di buchi.

"Nessuna telefonata era completa prima che ciascuna delle due avesse reso infelice l'altra. Il problema, agli occhi di Pip - l'essenza dello svantaggio che si portava dietro; la presumibile causa della sua incapacità di riuscire in qualunque cosa -, era che lei amava sua madre".

Per quanto riguarda il padre, invece, Pip non sa niente di lui e lui non sa neanche della sua esistenza.

A questo punto, nel tentativo di costruire una famiglia che nella realtà non è mai esistita, entrano in scena nuovi universi narrativi, apparentemente slegati tra loro. In primis Tom e Leila, la coppia di giornalisti d’assalto che farà da figura genitoriale a Pip, anche se più per trovare una compensazione a un loro trauma latente che per altro. O Annagret e Andreas Wolf, che le offriranno un lavoro per coinvolgerla nel loro sistema narcisistico. Una coppia sicuramente interessante: Wolf è un ibrido fittizio tra Assange e Snowden, un fuorilegge del web cresciuto nella Germania dell’Est e colpito da vari mandati di cattura internazionale, che guida in Bolivia il Sunlight project, una specie di Wikileaks che raggruppa giovani idealisti desiderosi di svelare tutto il marcio del pianeta e basato sul potere della parola che rivela i segreti. Pip proverà a seguirlo ovunque, accecata da un’irresistibile attrazione.
Ma anche in Purity, l’idolo della trasparenza non è sempre visto positivamente: quando tutto affiora alla luce del sole, quello che rimane della verità è un misero feticcio di se stessa, e così anche Wolf, ricorda per certi versi la doppiezza di Julian Assange in quanto ambiguo profeta della trasparenza altrui e dell’oscurità propria.

Un libro sulla purezza come utopia, resa inafferrabile dalla reale impossibilità di conciliare il desiderio di verità con il bisogno di preservare la propria privacy, una raccolta di nevrosi, depressioni, disadattamenti, per lo più generate da famiglie disfunzionali.

E un grande romanzo capace di trattare di temi politico-sociali e al tempo stesso di amore, di relazioni umane, di rovelli interiori, unendo con maestria quello che è nascosto nel profondo con ciò che invece galleggia in superficie.

Franzen, al suo quinto romanzo, partendo da una molla molto classica, quella della ricerca della verità, ci mostra un’America “alternativa”, un'America della protesta sociale popolata da squatter e da hackers, molto lontana da quella che immaginiamo quando pensiamo solitamente agli USA.

Ma Purity è anche un manuale di scrittura e Franzen è considerato il maggior scrittore americano vivente: un romanzo-fiume costituito da una trama polifonica divisa in sei parti e caratterizzata da un pluralismo di voci e di punti di vista, nonché da continui salti temporali.
Solo la prima e l’ultima parte sono raccontate dal punto di vista di Pip, mentre nelle altre sono Andreas, Leila, Tom e di nuovo Andreas a reggere le fila della trama, o direttamente in prima persona, come fa Tom, o con un punto di vista a focalizzazione interna, a dimostrare la padronanza della focalizzazione e il talento impressionante di Franzen nei dialoghi.

Un talento impressionante, una qualità di scrittura totalmente indiscutibile, di cui ho amato in primis la capacità di utilizzare certe semplici immagini in grado di rendere il suo mondo tridimensionale, come “Avevo in bocca il sapore metallico della spossatezza”, o ancora "La luce del sole è il miglior disinfettante".

Chiudo con un'ultima citazione che in qualche modo, leggendola e rileggendola centinaia di volte, ho fatto mia:
"Il nostro progetto comune era essere poveri, sconosciuti e puri fino al giorno in cui avremmo preso il mondo di sorpresa".

mercoledì 5 aprile 2017

ERASERHEAD – LA MENTE CHE CANCELLA (LYNCH, 1977)


 "Eraserhead si stava sviluppando in una certa direzione, e non avevo idea di cosa volesse dire. Cercavo la chiave d'accesso al significato di quelle sequenze. Qualcosa capivo ovviamente ma non sapevo quale fosse il cemento che teneva insieme tutto il film. Una bella fatica. Così tirai fuori la Bibbia e iniziai a leggerla. Un giorno lessi una frase. Chiusi la Bibbia: era fatta. Fine del discorso. Allora vidi il film come un tutt'uno. La frase completò questa visione al posto mio, al cento per cento. Penso che non rivelerò mai quale fosse quella frase." 
David Lynch, da In acque profonde. Meditazione e creatività

Titolo Originale: ERASERHEAD
Scritto da: DAVID LYNCH
Musiche: DAVID LYNCH, PETER IVERS, FATS WALLER
Montaggio: DAVID LYNCH
Fotografia: FREDERICK ELMES, HERBERT CARDWELL, DAVID LYNCH
Produzione: DAVID LYNCH
Durata: 90’
Anno: 1977

In trepida attesa del ritorno di Twin Peacks, ho rivisto e approfondito Eraserhead, il primo film di David Lynch, probabilmente la sua rappresentazione più avanguardistica a cui inizia a lavorare nel 1971, presso l'American Film Institute.

Un cult movie fuori dal tempo, con una gestazione difficile, visto che il budget a disposizione si esaurisce ben presto, rallentando la lavorazione e costringendo il regista a racimolare un po' di grana facendo la questua ad amici e parenti e consegnando giornali.

Girato in un sublime bianco e nero da tre operatori (Frederick Helmes, Herbert Cardwell e dallo stesso Lynch), quando uscì, dopo 4 anni di riprese ininterrotte e dopo una lunga battaglia per la sua poca commerciabilità e per il maniacale perfezionismo di Lynch, venne inizialmente distribuito neil circuito cinematografico dei midnight movie (spettacoli di mezzanotte) e sconsigliato alle madri incinte.

Diventò il film preferito di Stanley Kubrick, che affermò di averlo proiettato continuamente durante la lavorazione di Shining per trasmettere inquietudine agli attori.

E come potevamo io e Kubrick non amare alla follia il cinema di uno psichiatra mancato, che penetra le profondità dell'inconscio, alla ricerca della mente umana con continui richiami alla sua storia, ma anche rimandi pittorici, ad esempio Francis Bacon e Oskar Kokoschka, e all’avanguardia espressionista tedesca.

Un cinema onirico, senza un nesso logico, segnato da un'inquietudine allucinata, in cui la forza delle immagini sublima quella delle parole.

Al centro di tutto c'è la mente, la mente con i suoi ingannevoli labirinti, la mente di un padre figlicida che, tormentato dal senso di colpa, rimuove l'atto compiuto (da qui EraserHead - la mente che cancella) e, mentre assiste all'implosione dell'universo, si rifugia in un mondo immaginario alla ricerca di sollievo.

Henry Spencer ha messo incinta la propria ragazza, Mary X. Decide di portarla a vivere con lui, insieme al figlio, che in realtà è una creatura mostruosa, una specie di feto, sulla cui realizzazione Lynch non ha mai voluto rivelare nulla.

In un susseguirsi di visioni fatte di terra e sogni, il mondo si sgretola: il figlio piange ininterrottamente, Mary X scappa via e torna a casa dei suoi genitori, lasciando il bambino alle cure di Henry, che però finirà per ucciderlo, mettendo fine al proprio calvario e abbandonandosi all'oblio.

Un'improbabile sceneggiatura disegna uno sfondo in bianco e nero, innaturale, fatto di fumo e ruggine, ciminiere e palazzi, strane figure e volti cerulei. Un mondo disturbante dove i dialoghi, già ridotti all'osso, si fondono con un sound intriso di rumori meccanici, ronzii, sospiri e lamenti sopiti.

Accanto a loro, in tutto il film, c'è la colonna sonora, composta dal regista con l’aiuto di Peter Ivers, una musica che arriva da lontano, da altre stanze di cui intuiamo l'esistenza.

E intanto, su un palco decadente la Lady Radiator canta una canzone: "in heaven everything is fine".


"PELLE" di Erica Zanin

"PELLE" di Erica Zanin
Un romanzo in vendita su www.ilmiolibro.it

"PELLE", il mio primo romanzo che consiglio a tutti!

Siamo nella Milano dei giorni nostri, in quella zona periferica che da Greco conduce a Sesto San Giovanni. In un autobus dell'ATM, un autista, ormai stanco del suo lavoro, deve affrontare una baby gang che spaventa i suoi passeggeri. Si chiama Bruno ed è uno dei tanti laureati insoddisfatti costretti a fare un lavoro diverso da quello da cui ambivano: voleva fare il giornalista e invece guida l'autobus nella periferia di Milano. Ma non gli dispiace e non si lamenta. E' contento lo stesso: è il re del suo autobus e i suoi passeggeri sono solo spunti interessanti per i racconti che scrive. Li osserva dallo specchietto retrovisore, giorno dopo giorno, li vede invecchiare, li vede quando sono appena svegli e quando tornano dal lavoro stanchi morti, e passa il tempo ad immaginarsi la loro vita. Finché nella sua vita irrompe Margherita, con la sua vita sregolata, con i suoi problemi di memoria, con i suoi segreti. E tutto cambia. Fuori e dentro di lui.