martedì 6 maggio 2014

Noah: Il diluvio universale secondo Aronofsky

PRODUZIONE: U.S.A.
2014
GENERE: Drammatico
DURATA: 138’
INTERPRETI: Russell Crowe, Anthony Hopkins, Douglas Booth, Emma Watson, Jennifer Connelly, Leo McHugh Carroll, Logan Lerman, Nick Nolte, Ray Winstone
SCENEGGIATURA: Ari Handel, Darren Aronofsky
TRATTO liberamente dal libro della Genesi
FOTOGRAFIA: Matthew Libatique
COLONNA SONORA: Clint Mansell



È uscito nelle sale italiane il 10 aprile 2014 Noah, l'ultimo film diretto e prodotto da Darren Aronofsky (per intenderci, il regisa di "The Wrestler”, “Cigno Nero”). Un film carico di luci e ombre, liberamente ispirato alla storia biblica di Noè che cerca di salvare famiglia e animali dal diluvio universale, narrata nell’Antico Testamento.

“Noah” può contare su un cast di tutto rispetto: Russel Crowe nel ruolo del patriarca biblico Noè, Jennifer Connelly nei panni della moglie Naameh, Anthony Hopkins interpreta il nonno del protagonista Matusalemme e Emma Watson la figlia adottiva Ila.
Curiositá: Aronofsky è riuscito a farsi finanziare dalla Paramount Picture il film dopo quattordici anni di tentativi, solo dopo la diffusione di una graphic novel, uscita in francese, a cui aveva lavorato con un fumettista canadese, Niko Henrinchon.
E di soldi ne sono serviti davvero tanti (più di 125 milioni di dollari) se si pensa che per questo film, girato tra l’Islanda, il Messico e gli Stati Uniti, Aronofsky ha voluto costruire una vera arca, che è stata allestita in un set a Long Island, New York.

Aronofsky si è dichiarato soddisfatto dei risultati ottenuti dalla pellicola, anche se il film è stato duramente criticato a causa di inesattezze ed eccessive invenzioni (come i Watchers, i giganteschi angeli decaduti che aiutano Noè nella sua impresa), fino al punto di essere definito un mix tra Il Gladiatore, Harry Potter e Il Signore degli Anelli.

Queste critiche non sono niente se si conta che la proiezione di tale film, è stata addirittura vietata in Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Malesia, Medio Oriente, Pakistan, Qatar e nei paesi Nordafricani, in quanto secondo i loro governi “contraddice gli insegnamenti dell’Islam”. La fede islamica infatti vieta di dare un volto umano ai profeti e alle figure sacre e Noè è un profeta a cui il Corano dedica un capitolo intero. Per questo, Al-Azhar, l’autorità sunnita più importante dell’Islam, ha emesso una fatwa contro il film: “Al-Azhar ... rinnova la sua obiezione contro ogni forma artistica che dipinga i profeti di Dio e i compagni del Profeta Maometto”. Essi “disturbano i sentimenti dei credenti, sono vietati nell’Islam e rappresentano una chiara violazione della legge islamica”, si legge poi sulla fatwa.

Anche il tentativo, non riuscito, di Crowe e Aronofsky di ottenere un incontro privato con Papa Francesco per mostrargli l’opera in anteprima, si è rilevato essere un fallimento, senza considerare che lo stesso recensore di Avvenire ha definito Noah 'strano' e 'sconcertante', anche se 'visivamente potente', una 'grande occasione perda, perché senza Dio'.

Al di là delle polemiche e al di là del fatto che il film risulta un po' pesante (2 ore e mezza non sono mai poche), le scenografie e la fotografia (quest'ultima di Matthew Libatique già premio Oscar per “Il cigno nero”) meritano veramente. Senza contare poi i meravigliosi colori dei tramonti e delle albe, i giochi di chiaro-oscuro che creano un'accecante angoscia e la scena del racconto della nascita della terra .
Sicuramente da menzionare è la colonna sonora, curata dal compositore britannico Clint Mansell, che comprende anche un inedito (“Mercy Is”) cantato da Patti Smith e scritto da lei con Lenny Kaye. Si tratta di un brano appositamente creato per questo lungometraggio, in cui la Smith abbandona le vesti di sacerdotessa laica del rock per riscoprire la fede religiosa.

Una pellicola stracolma di effetti speciali insomma, di cui ricorderò di certo i due momenti ben precisi in cui Noah dipinge l'inferno e la perdizione umana in modo così vivido da essere rimasta impressionata.

lunedì 5 maggio 2014

The Grand Budapest Hotel: la storia di un albergo e di chi lo ha abitato




"Conoscete Il Piccolo Principe di Saint-Exupéry? Wes Anderson è il piccolo principe fatto adulto", F. Murray Abraham

Un'inventiva fuori dal comune e l'abitudine a disegnare e a immaginare tutti i suoi film come dei veri e propri storyboard animati, ha portato Wes Anderson a creare un nuovo cinemondo originale e credibile, ispirato alle commedie degli anni '30 e alle storie e memorie dello scrittore viennese Stefan Zweig.

Orso d'argento al festival di Berlino, Grand Budapest Hotel racconta - attraverso veri e propri racconti nel racconto - le vicende dei personaggi che frequentano Il Grand Budapest Hotel appunto, un lussuoso albergo in decadenza situato sulla vetta di una montagna altissima che si raggiunge con una funivia.

Per la precisione, siamo in una repubblica immaginaria dell’est Europa, Zubrowka, in un periodo a cavallo tra le due guerre, in un hotel che un tempo era stato un crocevia effervescente di destini, mentre adesso, dopo essere decaduto, funge da rifugio turistico sovietico per isolati superstiti delle famiglie aristocratiche più ricche europee.

Qui, il consierge Monsieur Gustave (Ralph Fiennes), uomo colto, raffinato e di grande classe, si affeziona a Zero Moustafa (l'esordiente Tony Revolori), un giovane lobby boy che ha trovato rifugio nel paese dopo essere sfuggito alla guerra.

Attraverso una serie divertente di colpi di scena si viene condotti nel fantastico mondo di Wes, fatto di ironia e nostalgia, in cui M. Gustave, tenta di salvarsi la pelle, attraverso piccole astuzie e una forte resistenza alle ingiustizie, e, nel contempo, conservare inalterate le forme e le regole di vita e la storia dell’albergo, simbolo di un piccolo mondo antico in cui i valori sono rimasti intoccati.

Quando l'anziana contessa Céline Villeneuve Desgoffes und Taxis, detta Madame D (Tilda Swinton) - affezionata cliente dell'albergo nonché una delle tante amanti agées di Gustave- muore in circostanze sospette, lasciandogli in eredità un prezioso dipinto, si crea un notevole scompiglio nella famiglia di lei.

Il figlio pseudo-nazista (Adrien Brody), nel tentativo di recuperare la tela, darà inizio a una serie di inseguimenti divertenti e talvolta impossibili, assecondato dai soldati-poliziotti capitanati da Edward Norton) che accuseranno Gustave di essere stato lui a uccidere la donna.

Sullo sfondo di un'Europa alle prese con una guerra, Gustave si ritroverà a fuggire dalla galera per ritrovare l’unico testimone oculare della morte (Mathieu Amalric) e salvarsi al contempo dai tentativi di omicidi messi in piedi dai famigliari (Willem Dafoe e Adrian Brody).
Il tutto potrà avvenire solo grazie all'aiuto del fido Zero Moustafa, che lo seguirà e lo difenderà nelle sue fughe e nei suoi ritorni al Grand Budapest Hotel.
Scritto dalla stesso Wes Anderson insieme a Hugo Guinness, il film si rivela così essere una commedia dal ritmo sostenuto che mixa piacevolmente tragedia, grottesco e commedia.
Una storia rocambolesca e acrobatica, ambientata in un clima da favola carico di colori vintage, che le musiche d’antan accelerate contribuiscono a creare, e in cui il sottile senso dell'umorismo si fonde a una nostalgia viscerale.

A sostenerlo in questa impresa epica, un cast stellare composto da grandi nomi e vecchi amici del regista: oltre agli immancabili Bill Murray e Owen Wilson, compaiono anche Harvey Keitel, Willem Dafoe, Adrian Brody, Tilda Swinton, Ralph Fiennes, Lèa Seydoux e Saoirse Ronan.

Particolarità: Wes si riconferma essere uno dei registi più cool di sempre, come dimostrano i guardaroba eleganti creati appositamente dalle più grandi firme per i suoi personaggi variopinti (si va da Louis Vuitton a Prada), come la cappa di Madame D (Tilda Switon), in velluto di seta, dipinta a mano e bordata di visone nero, realizzata da Fendi in collaborazione con la costumista premio Oscar Milena Canonero.

Perché sono i dettagli che fanno la differenza!



martedì 7 gennaio 2014

POLLOCK E GLI IRASCIBILI: TRA AMPLESSO FISICO E LIBERTA’ DI PENSIERO


Dal 24 Settembre 2013 al 16 Febbraio 2014
Palazzo Reale, Milano

Curatori: Carter Foster, Luca Beatrice
Enti promotori: Assessorato alla Cultura del Comune di Milano
Telefono: +39 02 54913/ 02 88453314
E-Mail info: elenamaria.conenna@comune.milano.it

Non mi interessa l’espressionismo astratto… e comunque non si tratta di un’arte senza oggetto, né di un’arte che non rappresenta. Io a volte ho molta capacità di rappresentare, anche se di solito ne ho poca. Ma se tu dipingi il tuo inconscio, le figure devono per forza emergere.” 
Jackson Pollock

Impressioni:
Adolph Gottlieb, The Crest
Rivoluzione artistica, rottura col passato, sperimentazione ed energia. E’ questo ciò che emerge in sintesi dall’esposizione “Pollock e gli Irascibili. La Scuola di New York” a Palazzo Reale (Milano), costituita da 49 capolavori di 18 artisti, dalla fine degli anni Trenta alla metà degli anni Sessanta, provenienti dal Whitney Museum of American Art di New York.

Franz Kline, Mahoning
Gli artisti scelti fanno tutti parte appunto del gruppo degli “Irascibili” – definiti in questo modo sulla scia del celeberrimo episodio di protesta, avvenuta nel 1950, di alcuni pittori per la loro esclusione da una mostra dedicata all’arte contemporanea americana al Metropolitan Museum di New York – che diedero vita a quella che poi fu chiamata “la Scuola di New York”: un fenomeno unico, che caratterizzò lʼAmerica del dopoguerra e che influenzò, con la sua forza travolgente, lʼArte Moderna in tutto il mondo.
Jackson Pollock, Number 27
Guest star della mostra è l’olio su tela Number 27 che Pollock dipinse nel 1950, uno dei suoi quadri più famosi, peraltro di dimensioni straordinarie (124 x 269 cm), in cui l’aspetto fondamentale è l’equilibrio fra le pennellate di nero e la fusione dei colori più chiari. Sempre del carismatico Pollock, sono esposti anche 6 disegni e due oli di Pollock (Number 17 e il sovracitato Number 27), ma, accanto a queste, sono presenti anche alcuni tra i capolavori
William Baziotes, The Beach
più rilevanti della collezione del Whitney, come Mahoning di Franz Kline (1956), Door to the River di Willem de Kooning (1960) e Untitled (Blue, Yellow, Green on Red) (1954) di Mark Rothko. Tecniche di pittura diverse, storie personali diverse, ma con alcuni denominatori comuni, quali la scelta di una pittura complessa e immediata e il fatto che tutti e 18 seppero re-interpretare la tela come uno spazio per la libertà di pensiero e di azione dellʼindividuo.


Mark Rothko, Untitled (Blue, Yellow, Green on Red)  




Jackson Pollock all'opera
Oltre alle opere è possibile vedere i video di Pollock al lavoro e coglierlo proprio nel momento esatto in cui trasferisce se stesso nella sua pittura e nello spazio circoscritto dai suoi gesti, completamente immerso in quella sorta di pittura-danza rituale che è il "drip painting", uno stile di pittura che si diffuse tra gli anni ’40 e ’60 del Novecento in cui il colore viene fatto sgocciolare, lanciato o macchiato sulle tele. Un’arte fisica istintiva e quasi mistica, quella dell’Action Painting, in cui, attraverso la pura gestualità, la forza primitiva dell’arte esce dal corpo dell’artista per poi depositarsi nell’opera creata, in un puro amplesso fisico, anche se, in realtà, quando dipinge, Pollock ha quasi sempre in mente un’immagine che viene poi velata dalle serie di pennellate, diventando così oscura e misterica.

Chiudo con una citazione di Pollock: “Tutti noi siamo influenzati da Freud, mi pare. Io sono stato a lungo junghiano… La pittura è uno stato dell’essere… La pittura è una scoperta del sé. Ogni buon artista dipinge ciò che è.


Gli artisti del gruppo degli “Irrascibili” immortalati per il numero di gennaio 1951 di Life da Nina Leen: Willem de Kooning, Adolph Gottlieb, Ad Reinhardt, Hedda Sterne, Richard Pousette-Dart, William Baziotes, Jackson Pollock, Clyfford Still, Robert Motherwell, Bradley Walker Tomlin, Theodoros Stamos, Jimmy Ernst, Barnett Newman, James Brooks, e Mark Rothko .

lunedì 30 dicembre 2013

The Visitors: tra sintonia armonica e singola performance

Ragnar Kjartansson
The Visitors 
A cura di Andrea Lissoni e Heike Munder

Dal 05.12.2013 al 05.01.2014
In collaborazione con Migros Museum für Gegenwartskunst, Zurigo


L’opera è una serie di ritratti, il ritratto della casa, il ritratto dell’artista, il ritratto di una serie di musicisti, il ritratto di una comunità, il ritratto di una generazione…”, Ragnar Kjartansson.

Ragnar Kjartansson, The Visitors
Per caso, rifuggendo dai centri commericali in un pomeriggio uggioso prenatalizio, mi sono imbattuta in The Visitors, ovvero una installazione dell’Hangar Bicocca costituita da nove proiezioni video in scala 1:1 su schermi accostati uno all’altro in cui musicisti differenti (fra cui Kristín Anna e Gyða Valtýsdóttir, le due sorelle della band islandese dei Múm, e Kjartan Sveinsson, tastierista fino al 2012 dei Sigur Rós e lo stesso Ragnar Kjartansson) 


Ragnar Kjartansson, The Visitors: camera da letto.

Bella la canzone scelta, ispirata alla poesia composta dell’ex moglie dell'artista, Asdís Sif Gunnarsdóttir e composta da Kjartansson, con alcune aggiunte di David Thor Jonson, così come bellissima anche la dimora ottocentesca di Rokeby Farm, nell’Upstate New York, dove sono ambientate le riprese.
Ragnar Kjartansson, The Visitors: salotto.

Un totale di nove tracce audio e video, girate separatamente e proiettate contemporaneamente in cui la musica costituisce, come lo stesso artista afferma, un “elemento quasi plastico” utilizzato per realizzare il concetto di “Music in Space”, che trae origine dal principio di spazializzazione del suono di Karlheinz Stockausen.

Ragnar Kjartansson, The Visitors: bagno.
In questo modo, la performance di ciascun musicista viene messa nelle mani dello spettatore che può iniziare a giocare e a ricostruire il puzzle, in un’arbitraria operazione di montaggio audio-video, che varia al variare dei suoi movimenti all’interno dello spazio. La cosa impressionante è che sembra veramente di passeggiare tra le stanze di Rokeby Farm, di potersi soffermare sull’uscio delle varie porte e di osservare e ascoltare gli artisti nei singoli ambienti, risucchiati in un’atmosfera di nostalgia e vitalità, tra polvere e arte.
Ragnar Kjartansson, The Visitors; cucina
Ragnar Kjartansson, The Visitors: camera matrimoniale
Ragnar Kjartansson, The Visitors: salotto.
Ragnar Kjartansson, The Visitors.

venerdì 27 dicembre 2013

Ben Stiller e "I sogni segreti di Walter Mitty"

The secret life of Walter Mitty













Titolo originale The Secret Life of Walter Mitty
Regia: Ben Stiller
Scritto da: James Thurber
Musica composta da: Theodore Shapiro
Cinematografia: Stuart Dryburgh
Cast: Sean Penn, Ben Stiller, Kristen Wiig, Shirley MacLaine, Adam Scott, Kathryn Hahn
Regia: Ben Stiller
Titolo: I sogni segreti di Walter Mitty
Prima data di uscita: 25 dicembre 2013 (Stati Uniti d'America)
Durata: 114 min



Perché a volte preferisco vivere un’emozione in maniera diretta piuttosto che dietro l’obiettivo, così mi capita di non scattare e restare a guardare, Sean O’Connell

Quando ero piccola trascorrevo ore e ore a sognare, a visualizzarmi nel mio futuro glorioso. Poi è successo qualcosa, la discrepanza tra la vita reale e le mie fantasie è diventata intollerabile e io inconsciamente ho ucciso i miei sogni.
Me ne sono resa conto la vigilia di Natale, quando, avendo finito il master, avendo già pulito casa, non dovendo cucinare ne’ fare la spesa, sono rimasta intrappolata in casa dalla pioggia. Mi sono stesa sul divano per riposarmi, ma di dormire non se ne parlava proprio. Per occupare quell’oretta che mi separava dal cenone con amici e parentado mi sono sforzata di fare un sogno ad occhi aperti, di visualizzare il mio futuro, così come avevo letto su una rivista di psicologia. Non ce l’ho fatta e la cosa mi ha sconvolto.
Come può una persona rimanere talmente intrappolata nel presente, e forse in parte anche nel passato, da non riuscire neanche ad immaginarsi tra un anno?

Ci ho riprovato il giorno dopo e, con grande fatica, ho cominciato a vedere qualcosa. Dapprima me stessa in una versione più snella e brillante, poi un uomo nel mio appartamento che mi osserva seduto sul divano mentre gioco con una bambina, già grande, sui quattro-cinque anni. Niente di straordinario forse per qualcuno, ma per me che non faccio che pensare a libri, film, marketing e comunicazione digitale e social network è stato tanto. Vuoi vedere che al di là del mio naso c’è un mondo?

Poi arriva il 26 dicembre e il problema si ripropone: come la trascorro quest’intera giornata? Decido di andare al cinema con degli amici e il caso vuole che anche il film votato dalla maggioranza sia una nuova spinta a buttarsi e a riprendere sognare e a pretendere dalla vita quello che desideriamo.

Un uomo qualunque sospeso tra una grigia realtà e una spericolata fantasia è infatti il protagonista al centro di The Secret Life of Walter Mitty, la quinta prova di regia per Ben Stiller dopo Zoolander, Tropic Thunder, Giovani carini e disoccupati e Il Rompiscatole.
Interpretato da un Ben Stiller ormai fuori dagli stretti panni del semplice attore comico, il film è un inno alla vita e un sottile invito a esistere tratto dal breve racconto The Secret Life of Walter Mitty dello scrittore-disegnatore James Thurber, scritto nel 1939 per il New Yorker (il film ne è il secondo adattamento cinematografico dopo quello del 1947 con Danny Kaye, Virginia Mayo e Boris Karloff).

Ma chi è Walter Mitty?
Walter Mitty è uno di noi, in fondo. Semplice, timido e riservato, un po' impacciato, e per questo sempre in difficoltà nei rapporti interpersonali, Mitty è una specie di “topo d’archivio” che si occupa della gestione dell’immenso archivio fotografico della rivista Life (lo stesso giornale dove un giovane Stanley Kubrick faceva i suoi primi scatti da fotoreporter, prima di diventare un regista). Segretamente innamorato della collega Cheryl (interpretata da Kristen Wiig), Mitty spezza la sua apatica esistenza sognando a occhi aperti un mondo elettrizzante in cui è il protagonista di imprese emozionanti, dove tutto va per il meglio e la vita è entusiasmante, finchè, spinto dalla minaccia di un possibile licenziamento dovuto al passaggio della testata dal cartaceo all’online - e al conseguente ridimensionamento dello staff - , prende finalmente l’occasione al volo e decide di gettarsi nella vita.

Il pretesto è il recupero della fotografia speciale che farà da copertina all'ultimo numero da pubblicare, lo scatto migliore che il fotoreporter Sean O’Connel (interpretato da Sean Penn) gli ha inviato appositamente per l’ultima uscita della rivista in quanto a suo dire cattura la quintessenza di Life magazine. Ma il negativo dell'immagine non si trova così facilmente, e Walter dovrà rincorrere per tutto il globo le tracce del misterioso artista, da New York all’Islanda utilizzando gli altri negativi in suo possesso come traccia: si tratterà di un viaggio fantastico che permetterà al protagonista di trovare il proprio posto nel mondo e i toccare con mano la propria esistenza.

Una volta trovato Sean O’Connell, emblema del foto-documentarismo pre-digitale duro a morire, il reale e il virtuale, la vita e la fantasia si incontrano per un istante, come esprime alla perfezione Sean Penn nel momento in cui decide di non immortalare il fatidico gatto fantasma che ha atteso per ore e ore dietro l’obiettivo «Perché a volte preferisco vivere un’emozione in maniera diretta piuttosto che dietro l’obiettivo, così mi capita di non scattare e restare a guardare»



mercoledì 25 dicembre 2013

Arctic Monkeys: "Do I Wanna Know"

"Have you got colour in your cheeks?
Do you ever get the feeling that you can’t shift the tide
 That sticks around like something’s in your teeth 
And some aces up your sleeve
I had no idea that you’re in deep
I dreamt about you near me every night this week
 How many secrets can you keep?
Cause there’s this tuneI found that makes me think of you somehow
 When I play it on repeat 
Until I fall asleep
 Spilling drinks on my settee".




Tra le cose che vorrei fermare e impedire di scorrere via nel marasma di immagini, suoni, persone, messaggi, colori che invadono costantemente la mia vita c'è Do I Wanna Know, il video fatto di sole animazioni grafiche che il regista David Wilson ha diretto per gli Arctic Monkeys
Si tratta del primo singolo tratto dal loro quinto album "AM" che la rockband di Alex Turner ha pubblicato a Settembre. Lo voglio inserire tra le cose da non dimenticare perché mi piace la nuova direzione intrapresa dalle scimmie artiche. Vediamo dove ci porterà...

martedì 24 dicembre 2013

Viva PIF e il suo film ‘La mafia uccide solo d’estate’



Arturo: “Ma la mafia ucciderà anche noi?”
Il padre di Arturo: “Tranquillo. Ora siamo d’inverno. La mafia uccide solo d’estate”.


Bravo Pif! E’ il commento più in voga tra chi esce dalle sale in cui in questi gio
rni viene proiettato il suo primo film ‘La mafia uccide solo d’estate’, perché Pif non è uno di quei registi che ci si immagina impegnato nei grandi eventi mondani: Pif è uno di noi, uno che potresti incontrare quando vai al supermercato o in un pab mentre bevi una birra.

Girato a Palermo grazie al supporto dell’associazione Addiopizzo, il film è il risultato di un sapiente mix di elementi di finzione e filmati d’epoca che raccontano le stragi mafiose che sconvolsero la Sicilia tra gli anni ’80 e ’90 attraverso gli occhi ingenui di un bambino, Arturo. In questo modo vicende autobiografiche si sovrappongono a quelle storiche, con un effetto ironico e

Arturo infatti nasce nel giorno in cui Vito Ciancimino diventa Sindaco di Palermo e cresce nella Palermo surreale degli omicidi e delle stragi: quella di Viale Lazio del 1969, dell’omicidio del generale Dalla Chiesa, di Boris Giuliano, di Pio La Torre e Rocco Chinnici fino ad arrivare alle bombe di Capaci e di via D’Amelio del 1992. Qui inizia la sua carriera precoce di giornalista in erba, influenzata da due elementi principali: la mafia e Andreotti, che diventa il suo “divo” personale, venerato con tanto di poster appiccicato nella sua stanzetta. L’amicizia con un reale giornalista, l’intervista al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa poco prima della sua uccisione, l’esperienza di una mafia rappresentata come un male socialmente accettato segnano i primi passi nel mondo del giornalismo, mentre sul piano amoroso c’è uno stallo totale: Arturo è da sempre innamorato di Flora, sua compagna di scuola dai toni un po’ altezzosi che si trasferirà in Svizzera ma che rientrerà nella sua vita come assistente di Salvo Lima. Allo stesso modo anche i personaggi del film, così come è successo e succede ancora nella vita reale, si dividono in due tipologie, chi cerca di capire e combattere Cosa Nostra e chi invece si è girato dall’altra parte e non vede niente.

In questo modo PIF diverte e commuove, giocando su più registri e muovendosi con agilità al confine tra ironia e dramma, dimostrando che si possono affrontare temi seri e di un certo peso, come la mafia, anche con un sorriso. Il cast lo accompagna in questa missione: bravi soprattutto Alex Bisconti nell’interpretare Arturo bambino e Ginevra Antona nel ruolo di Flora, l’amatissima compagna di scuola di Arturo.

Un film digeribile, nonostante la serietà del tema trattato, anche grazie alla tecnica di ripresa ed al linguaggio che Pif è solito utilizzare in tv: l’idea del film nasce infatti dalla puntata sulla mafia del programma che conduce su Mtv, Il Testimone, un’idea vincente come confermato dal “premio del pubblico” ricevuto al Torino film festival 2013.

Insomma, grande Pif!


Pif in due righe:
Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, nato e cresciuto a Palermo, è il figlio del regista Maurizio Diliberto e ha già collaborato a diversi film: Un tè con Mussolini (1998) di Franco Zeffirelli, I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana.
Il suo esordio come autore su Italia 1 risale al 2001, in cui debutta come Iena, mentre nel 2007, su MTV, dà vita al suo primo programma individuale, Il testimone, in cui emerge come reporter molto particolare.

giovedì 21 novembre 2013

"La promessa": ovvero quando Sean Penn è tornato a sorprendermi




"Ho fatto una promessa Eric; tu hai l'età per ricordarti di quando questo contava"
Detective Jerry Black (Jack Nicholson)


Titolo originale: The Pledge
Anno: 2001
Genere: drammatico
Regia: Sean Penn
Soggetto: Friedrich Dürrenmatt
Sceneggiatura: Jerzy Kromolowsky, Mary Olson-Kromolovski
Fotografia: Chris Menges


Produttore: Michael Fitzgerald, Sean Penn, Elie Samaha
Musiche: Klaus Badelt, Hans Zimmer
Interpreti e personaggi:
Jack Nicholson: Jerry Black
Robin Wright Penn: Lori
Patricia Clarkson: Margaret Larsen
Benicio del Toro: Toby Jay Wadenah

Ogni tanto non riuscire a dormire porta a grandi risultati. Questa notte sono incappata per caso in un vecchio film diretto da Sean Penn e, memore di Into the wild (altro film in cui si è cimentato nei panni di regista), ho optato per l'abbandono definitivo del mio stato di fastidioso dormiveglia per concentrarmi interamente su questo gioiellino.

Ispirato all'omonimo romanzo poliziesco di Friedrich Dürrenmatt, La promessa (The Pledge) è un film che, al contrario del libro, è ambientato nella provincia americana dei nostri giorni, fra le montagne del Nevada.

Qui, Jerry Black (Jack Nicholson), un poliziotto ossessionato dal brutale omicidio di una bambina, non è soddisfatto di come si è conclusa l'indagine, ovvero con il semplice arresto di un balordo (che in realtá non centrava niente e che si uccide nel commissariato).
Per questa frustrazione che non gli fa trovare pace, Black inizia una silenziosa caccia all'uomo: si ritira nella zona, compra un distributore di benzina in cui lavora in solitudine, conosce la barista del posto, con cui va a vivere e aspetta che il folle si faccia di nuovo vivo pensando ogni momento a lui.

Insieme alla donna, nella vita dell'ex poliziotto entra anche la figlia di lei (dell'età delle bimbe uccise) , di cui Black, ossessionato dall'uomo, non esita a servirsi come esca per poi mandare definitivamente la sua vita a rotoli e precipitare nella follia.

Trama a parte, il film, presentato in concorso al 54º Festival di Cannes, non può essere definito un tipico giallo: il lirismo dell’atmosfera, la direzione di Sean Penn e la magistrale presenza dell'istrionico Jack Nicholson rendono La promessa (The Pledge) un film da non perdere dove nulla viene lasciato al caso ed ogni cosa è intrisa di denso significato.

A partire dalle immagini-cartolina distribuite nella pellicola, compresa l'immagine del finale con cui inizia il film, in cui corvi (simbolo funereo) che volano in un paesaggio soleggiato ripreso in dissolvenza, ti fanno immergere prepotentemente nell'atmosfera che Sean Penn vuole ricreare.

"PELLE" di Erica Zanin

"PELLE" di Erica Zanin
Un romanzo in vendita su www.ilmiolibro.it

"PELLE", il mio primo romanzo che consiglio a tutti!

Siamo nella Milano dei giorni nostri, in quella zona periferica che da Greco conduce a Sesto San Giovanni. In un autobus dell'ATM, un autista, ormai stanco del suo lavoro, deve affrontare una baby gang che spaventa i suoi passeggeri. Si chiama Bruno ed è uno dei tanti laureati insoddisfatti costretti a fare un lavoro diverso da quello da cui ambivano: voleva fare il giornalista e invece guida l'autobus nella periferia di Milano. Ma non gli dispiace e non si lamenta. E' contento lo stesso: è il re del suo autobus e i suoi passeggeri sono solo spunti interessanti per i racconti che scrive. Li osserva dallo specchietto retrovisore, giorno dopo giorno, li vede invecchiare, li vede quando sono appena svegli e quando tornano dal lavoro stanchi morti, e passa il tempo ad immaginarsi la loro vita. Finché nella sua vita irrompe Margherita, con la sua vita sregolata, con i suoi problemi di memoria, con i suoi segreti. E tutto cambia. Fuori e dentro di lui.